LA FINALE
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Esattamente vent’anni fa l’Alleghe Hockey in finale di campionato; che storia potente! La mia prima finale vissuta “dal vivo”, ‘che quella storica del 1985, persa allo spareggio contro il Bolzano, avevo sette anni ed ho solamente ricordi orali dal sapore di quasi leggenda. Ero adolescente, invece, al tempo della mitica vittoria in Alpenliga, ma Villach era lontana e per fortuna c’era la RadioPiù a portarmi l’emozione in casa; e quest’anno a dicembre saranno trent’anni da quel trionfo che è storia. Stavolta per fortuna era tutto diverso; c’ero dentro in pieno in quella emozione iniziata alla fine di settembre e cresciuta partita dopo partita. Verso Natale, commentando le partite al ritorno da Alleghe, in macchina si iniziava timidamente a pensare che “chesto podarie ese l’an bon par vinze sto benedeto campionato”. Erano vittorie in casa e fuori casa, pure al Palaonda di Bolzano e in terra lombarda in quel di Milano; e quando arrivava qualche battuta d’arresto non erano mai brutte sconfitte. L’inverno avanzava, le Civette volavano sempre in alta classifica e maturava la consapevolezza che “sì, stavolta si poteva fare, si poteva pensare di esaudire quel grande sogno chiamato scudetto”. Terminò la stagione dei silenzi ed arrivò una bella e tiepida primavera, si sciolse il ghiaccio sul lago ma non quello del De Toni; era giunto il tempo delle partite da “dentro o fuori”, quelle delle cariche dure e delle barbe sempre più lunghe dei giocatori. Dopo la metà del mese fu mitologica semifinale contro l’avversario di sempre; gli altri biancorossi del Bolzano si presentarono agguerriti e duri più che mai, e furono cinque partite da infarto, con la serie culminata con la disputa della “partita perfetta” da parte degli agordini; tre a zero e Bolzano abbattuto. Una sera indimenticabile, una emozione violenta, una botta di adrenalina ad ogni azione. Lo stadio colmo di tifosi, gli occhi lucidi di tanti ed il mio scassarmi le corde vocali gridando quel “è finale” a filo di sirena. Non ci fu nemmeno il tempo di metabolizzare quella storica vittoria; due giorni appena e mi trovai proiettato in una dimensione nuova. Ora la finale non era più un sogno, un tabù, una parola da non pronunciare per scaramanzia; era realtà quella prima partita che si sarebbe giocata al De Toni la sera dell’ultimo giovedì di marzo. Era tutto strano in quei giorni; assistere ad un hockey “di primavera”, arrivare “n’ Zunaia” mentre il sole iniziava a tramontare invece che al buio. E poi il non dover imbacuccarsi come un palombaro, che ormai anche dentro allo stadio si percepiva un tepore nuovo. C’era entusiasmo nell’aria e le pagine dello sport dei quotidiani locali erano tutte dedicate ai biancorossi. C’erano i biglietti in prevendita e la 203, che nelle sere di marzo potresti quasi dormirci in mezzo ai rettilinei di Candaten, che tanto non passa nessuno e invece alle diciotto di quel giovedì di fine marzo c’era il caos di traffico come a Ferragosto. Io e papà fummo fra i primi ad arrivare ad Alleghe; la primavera si sentiva pure in riva al lago e la tensione nell’aria era palpabile. Ma era una tensione diversa dal solito; ora, in caso di vittoria nella serie, non era più “chissà chi becchiamo in semifinale”; stavolta vincere avrebbe significato cucire sulle maglie quel Tricolore che mancava, e questa prospettiva incuteva perfino un certo timore. Fuori dello stadio i giocatori del Milano facevano pre-riscaldamento palleggiando fra loro con un pallone da calcio. Li guardavo mentre aspettavo che aprissero il cancello, e sembravano rilassati, probabilmente abituati alle partite di questa importanza. Io, invece, rilassato non lo ero per niente; fremevo per prendere posto prima possibile sul penultimo grandone della tribuna grande. All’ingresso il cospicuo numero di agenti di Polizia e Carabinieri in tenuta anti-sommossa faceva capire, se ancora ce ne fosse stato bisogno, l’importanza dell’evento. Poco dopo le sette lo stadio era già sold-out, con il Nucleo Disagiato all’opera per allestire la coreografia delle grandissime occasioni. Mentre osservavo i primi movimenti nei pressi delle panchine percepivo una atmosfera nuova, quasi seria; c’era un sapore di ignoto, una sorta di spaesamento, un ritrovarsi dentro ad un qualcosa di sconosciuto. Un sentire di avere a pochi passi un sogno che ora si sarebbe potuto davvero toccare con mano. Poi quel sogno lungamente sognato improvvisamente diventò tempo presente; ed il cuore prese a battere al tempo dei dischi scagliati a raffica sui gambali dei portieri durante il riscaldamento. Le facce tese e grintose dei giocatori agordini, il pattinaggio solido dei giocatori meneghini; la musica durante la pulizia del ghiaccio e poi le luci che si abbassano. L’entrata in campo delle squadre, la voce emozionata dello speaker di campo che scandisce nome e numero dei giocatori. E poi l’inizio; il primo ingaggio, i cori potenti della tifoseria del Milano che incutono soggezione. È tifo da stadio di calcio, lo si sente quel timbro in stile San Siro dei tamburi; sono abituati loro ai grandi stadi, noi, invece, per qualche attimo sembriamo spaesati. Poi il Nucleo intona quel “forza Alleghe” e tutti ci aggreghiamo; ora anche noi ci facciamo rispettare, tiriamo fuori l’orgoglio agordino ed il “forza Alleghe” che ne esce mette davvero i brividi. In campo il gioco è duro il giusto ma corretto e le squadre giocano a viso aperto. Scorrono i minuti sul punteggio di uno a uno; è equilibrio perfetto sul ghiaccio e tifo infuocato sugli spalti. Sono incontri, questi, in cui basta un singolo episodio per deciderne la sorte. È una stecca agordina che incredibilmente si incastra in balaustra sotto ad un cartellone pubblicitario, è la breve inferiorità numerica indotta da questo episodio a creare l’occasione per il vantaggio dei milanesi. E i lombardi non si lasciano sfuggire l’occasione ed è due a uno che non si schioderà più fino al suono dell’ultima sirena. Poi la serie di partite continua, ma le Civette sono stanche, fiaccate dalla lotta durissima combattuta contro il Bolzano. A Milano è ancora sconfitta, gara 3 ad Alleghe è quasi ultima spiaggia. È ancora stadio stracolmo, è pubblico che spinge i biancorossi, sono i giocatori agordini che danno il 140 % sul ghiaccio. Ormai sono solo energie nervose che pian piano calano fino a quel tiro milanese dalla blu che va ad infilarsi nel sette; 4 a 3 e sogno finito. Gara 4 a Milano è occasione perfetta che i meneghini non si lasciano sfuggire; e per loro è festa scudetto in casa. Svanì così la grande occasione di portare a casa il Tricolore ed ebbe inizio un periodo di grande hockey in riva al lago. Altre emozioni, gioie e dolori ed un grande rimpianto, cinque anni più tardi, per quella finale tutta bellunese che per un soffio non si giocò. Fu ancora il Milano a spezzare il sogno allo spareggio di semifinale; e lo scudetto, quell’anno, finì dalla parte sbagliata del Falzarego e fu vero dolore che perdurò fino all’estate. Ma questa è un’altra storia da raccontare…forza vecchio cuore biancorosso!!
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