GIORNI D’ATTESA
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La 127 era sparita fra le curve della provinciale solo da pochi minuti; e Belluno di colpo era diventato un miraggio lontano, una immagine sfuocata. Ora ero lassù, fra le montagne agordine. I miei occhi non avevano più condomini e semafori da guardare; ora potevano ammirare la maestosità del Pelsa, con le ultime lingue di neve sotto la cima ed il verde intenso della primavera che avanzava ai piedi delle grandi pareti di roccia. Le mie gambe non dovevano più calpestare marciapiedi e cortili asfaltati. Potevano correre libere, sempre in salita o in discesa; quasi mai in piano. E camminavano nella terra, fra i sassi, nei prati con l’erba bagnata dalle piogge d’aprile. Pochi rumori, qualche macchina, la corriera ed il canto dei larici mossi dal vento. Poi il silenzio, rotto soltanto dal picchiettare della pioggia sul tetto del tabià e sui teli di naylon che coprivano la legna. Qualche camino iniziava a fumare verso sera, mentre la luce di una fioca lampadina illuminava la cucina all’ora di cena. Era l’attesa la fedele compagna di quei giorni lontani vissuti di fronte al Pelsa. Poteva essere l’attendere le nuvole che avrebbero portato una leggera pioggia di primavera, oppure di sentire il caratteristico rombo della 127 color del cielo di papà che saliva di terza lungo la provinciale. Era un vivere aspettando con speranza giovanile che accadesse un qualcosa qualsiasi che potesse scalfire quei profondi silenzi di lassù. L’attesa stava seduta a fianco a me quando guardavo il Pelsa dall’ultimo scalino “su ‘nte stradon” insegnandomi la pazienza. Parlava con voce di pioggia leggera, si palesava attraverso i rintocchi della pendola che scandivano ore sempre apparentemente uguali. C’erano il giorno e la notte, e una libertà infinita in quel mondo essenziale. Eppure erano gli anni ’80, con la TV in bianco e nero che alla sera raccontava della “Milano da bere”, delle discoteche, del Mostro di Firenze e delle vicende oscure di Mamma Ebe. E poi di Reagan e Gorbaciov, Alì Agca e Papa Wojtyla. Un affacciarsi sul mondo che durava il tempo del TG1; poi ritornavano i silenzi della montagna di sera. Mentre osservavo i larici che si scrollavano di dosso la fredda pioggia d’aprile, pensavo che la modernità e la frenesia di quel tempo si fossero fermate al tornante delle Martinazze. C’era sempre la sensazione, mentre salivo lungo la provinciale, che tutto quel mondo in fermento stesse scivolando via e rimanesse solamente l’essenziale del vivere. Il pranzo a mezzogiorno in punto, la cena alle sei; nel mezzo lunghi momenti passati a pensare, ad inventare giochi e sperimentare nuove attività come piantare chiodi, spingere la “barela”, maneggiare con circospezione la “ronconela”. Poi, terminati i giochi, ritornava nuovamente quell’aspettare che pareva eterno, e mentre attendevo mi riempivo della preziosa semplicità di quel vivere apparentemente al minimo. C’era l’acqua della “brenta” e del Rù da Ghisel, e poi il vento che scendeva dalla Val Cordevole; la “tera dei ciamp” e l’erba nuova bagnata dagli scrosci improvvisi. C’era la natura che insegnava una vita lenta che scorreva al ritmo scandito dalle stagioni; il fieno ai primi di luglio, la “becaria” a fine novembre. L’orto da bagnare d’estate e la neve da spalare d’inverno. C’erano i silenzi e le piogge d’aprile, il fuoco della cucina economica e le voci e i visi di quelli che c’erano prima che mi stavano insegnando la vita.
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