LA DIGA FANTASMA
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Ho fatto un giro in macchina “su par chi fodom” un pomeriggio che pioveva; c’era la neve sui prati che sovrastano Livinallongo e poco più in basso una fredda e leggera pioggia d’aprile. Mi sono fermato al temine dei tornanti della provinciale per rendere omaggio ai Caduti tumulati nel sacrario di Pian di Salesei; sventolava il Tricolore ed un pensiero è andato ai militi che vivono il sonno eterno alle pendici del Col di Lana. Un pensare in silenzio mentre scendeva una pioggia sottile e il vento di primavera accarezzava quelle giovani Anime. Poi sono ripartito percorrendo la provinciale; guidavo lentamente nei pressi di Digonera e prima di tuffarmi in discesa lungo la severa galleria “Saviner”, un altro pensiero ha fatto fermare la macchina in una piccola piazzola. Molto spesso, quando mi capita di andare in valle del Mis oppure in Cadore o dalle parti di Arsiè, mi chiedo come si presentavano quei territori prima della costruzione dei laghi artificiali. La mia generazione li ha sempre visti, e occorre andare alla ricerca di qualche foto in bianco e nero per poter soddisfare, almeno in parte, questa curiosità. Dalle parti di Digonera e Sopracordevole accade l’esatto contrario; in questo luogo occorre immaginarlo il lago che doveva esserci e che invece non c’è. Osservavo la valle e tentavo di immaginarlo questo bacino artificiale mai nato, e nel frattempo pensavo che stavo passeggiando su quella che sarebbe stata una strada “lungolago”; la provinciale, infatti, fu costruita proprio in previsione del futuro invaso. Dal ciglio strada la valle sprofonda ripida per circa 120 metri fino a raggiungere il Cordevole che scorre in fondo al profondo canyon; acqua di torrente che, per potersi trasformare in acqua di lago, avrebbe dovuto essere sbarrata da una diga. Oggi il lago è pura immaginazione, la diga invece è fantasma che racconta una storia; la devi immaginare la diga, ma esiste un qualcosa che aiuta a darle una forma. Lungo le ripide pareti della gola si possono scorgere le spalle dello sbarramento, ed è una visione che da un lato stupisce e dall’altro inquieta. Appare davvero come una sorta di fantasma silente, un monumento incompiuto di archeologia industriale testimone di quegli anni in cui c’era un gran bisogno di energia elettrica. Un tempo, quello precedente e immediatamente successivo alla Seconda Guerra Mondiale, in cui in agordino e nel resto della provincia, i lavori per la costruzione di dighe gallerie e centrali, trasformarono radicalmente alcune zone del nostro territorio. A Digonera, all’inizio degli anni ’60 era sorto un cantiere di quelli potenti; sarebbe dovuta sorgere la diga più alta della provincia, in quanto quella del Vajont, alta più del doppio, sorge appena aldilà del confine con il Friuli. Centoventi metri di sbarramento che sarebbe andato a creare una sorta di copia, più stretta e profonda, del lago del Mis. Tutto stava crescendo velocemente, la diga stessa e tutte quante le opere accessorie che ancora oggi si possono scorgere guardando con un po’ di attenzione. Pure lo scarico, che avrebbe incanalato l’acqua per poi condurla nelle turbine della centrale di Saviner, era pronto, ma per vederlo occorre fermarsi lungo la strada poco prima di Rucavà, dall’altra parte della valle. Erano maestranze al lavoro sui conci, camion che salivano e scendevano lungo la Val Cordevole; e poi gru, benne di calcestruzzo, minatori e qualche incertezza. Probabilmente, ancora un paio di anni di lavoro e lo sbarramento ad arco avrebbe dominato la valle; e l’acqua del Cordevole sarebbe salita fino al lambire la strada nuova riempiendo la gola. Ed invece, ad autunno appena iniziato, la storia cambiò all’improvviso; arrivò il 9 ottobre del 1963 e la Tragedia del Vajont che spezzò le vite di 1910 persone, cancellò Longarone e sconvolse l’Italia intera e non solo. A Digonera le incertezze, i dubbi, la paura che si potesse ripetere un altro Vajont, divennero palpabili; ci furono proteste dei cittadini e poi una firma di quelle importanti che mise la parola fine ai lavori. Ritornò il silenzio nella gola di Digonera e in provincia di Belluno si concluse l’epoca delle grandi opere idroelettriche. Rimangono i laghi artificiali, le lunghe gallerie scavate nella roccia, le centrali e le quindici dighe più un fantasma situate in tutte le vallate bellunesi, a raccontare quei tre decenni di lavori imponenti che nel tempo sono diventati storia di questa terra di montagna.
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