MAGGIO
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Lo scoccare di maggio sanciva l’inizio di un tempo nuovo; ora la primavera era davvero divenuta certezza, non c’erano più quei venti di fine marzo, e nemmeno la volubilità di aprile. Era un tempo dolce quello che pareva calato all’improvviso sulla piccola città; i prati del Serva e del Nevegal si erano colorati di un verde nuovo e solamente la neve che ancora ricopriva le cime del Pelf e della Schiara raccontava di ciò che c’era stato prima. Alla sera, la campana grande del Duomo suonava i Vespri quando il sole ancora indugiava prima di ritirarsi dietro il Pizzocco, ed era in quei momenti che la via iniziava a popolarsi. All’inizio del mese delle rose i bambini del quartiere incominciavano ad uscire nel tepore della sera, in compagnia delle madri che non disdegnavano di rinnovare l’antica arte del chiacchierare. L’arrivo di maggio regalava la consapevolezza che ormai l’estate non era più miraggio; ci si rendeva conto che mancavano solamente quattro o cinque settimane al termine della scuola, e poi sarebbe arrivato un altro tempo, quello del “tirase ‘n su, en cin a San Tomas e ‘n cin a Zenzenighe”. Anche lassù di fronte al Pelsa, ora era primavera; il mese del Fioretto serale era quello che sincronizzava la stagione di quaggiù e quella di lassù. Nel grande cortile delle Gabelli erano fioriti il pero e il melo, ed anche il “perer sot la finestra de stua a San Tomas” ora faceva bella mostra di sé in compagnia della vecchia “zaresera”. In via Feltre i tigli si vestivano di foglie nuove, sui costoni del Pelsa i larici sfoggiavano un verde gentile; solamente sulle cime, e sui “revers” delle Pale di San Lucano, abitava ancora l’inverno; sarebbe servito ancora un mese lassù, per ammirare i fiori sui pascoli di Ambrusogn. Maggio era anche il mese delle acque del Biois e del Cordevole ingrossate dal disgelo, e quasi sempre potevo ammirare la possente cascata che scendeva dalla paratoia del lago del Ghirlo; era tempo a volte di “brentane” solitamente meno potenti di quelle novembrine, quasi come se i due torrenti avessero avuto voglia di schiarirsi la voce dopo essersi svegliati dal lungo sonno invernale; era acqua scura, rumorosa e fredda, che si sarebbe gradualmente colorata d’estate intorno a fine mese. Ma non era solamente l’acqua di torrente la protagonista di quei giorni del quinto mese dell’anno, c’era pure quella di casa a Cencenighe; il rito primaverile del “verde le acque” sanciva anch’esso un tempo nuovo. Era un sole caldo e allegro quello che andava a scaldare i muri mentre i rubinetti venivano aperti; e quel risuonare gioioso d’acqua e quella luce che sapeva di quasi estate che entrava in cucina, allontanava definitivamente quei lunghi giorni d’inverno, quando non c’eravamo ad ascoltare la campana grande che suonava il mezzogiorno. Sarebbero state ancora domeniche di su e giù percorrendo la Strada Madre pressoché deserta; ed era un bell’andare, con le insidie invernali che ormai erano ricordo e il traffico estivo ancora da venire. Partire da Belluno e appena trentacinque minuti più tardi parcheggiare di fronte al Pelsa, dove i nonni avevano smesso di accendere il fuoco, tranne in quelle sere in cui le nuvole stazionavano sopra le case di Colaz e la pioggia faceva risuonare il tetto di lamiera del tabià. Poi altri trentacinque minuti di viaggio che ci avrebbero ricondotto nella piccola città, dove, approfittando del sole ancora alto, avremmo potuto tirare due calci al pallone mentre mamma preparava la cena. Ora le domeniche “on the road” si sarebbero potute contare sulle dita di una mano; poi un giorno ormai poco distante, il bagagliaio della Ritmo sarebbe stato riempito fino all’orlo, e per tre mesi la piccola città si sarebbe si sarebbe trasformata in sempre più sbiadito ricordo.
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