COSTOIA
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Lassù, di fronte alla parete nord del Civetta, esiste e resiste un mondo ricco di quiete e storie che conosco appena. Una piccola piazza con una fontana, le case e i tabià e più sotto quei prati che un tempo erano campi baciati dal sole. Radici materne mi legano a questo borgo situato a 1276 metri di quota, abbarbicato su di un ripido costone del Sasso Bianco, da dove si può ammirare l’intero Pelsa e il parcheggiare la macchina è questione di centimetri. La mia prima volta a Costoia di San Tomaso potrebbe risalire alla primavera del 1986; ci arrivai a bordo di una Cinquecento nera ed era di marzo, un pomeriggio di nuvole e vento e neve che si scioglieva sui prati. Fu per un funerale, e il morto per me era solamente un nome che qualche volta avevo sentito citare in casa. Ignoravo il suo volto e non conoscevo nemmeno Costoia. Ricordo il silenzio e i numerosi tornanti che conducono alla seconda frazione più alta del comune; dove nacque mia madre in un lontano secondo giorno di maggio che nevicava. Non è luogo di passaggio Costoia, è invece approdo, è la località dove termina la strada comunale ed hanno inizio i sentieri che conducono “su la Mont”, dove sorgono gli antichi fienili e dove le donne e gli uomini di un tempo falciavano quell’erba di alta quota. Se mi capita di recarmi a visitarla Costoia, è perché mi ha chiamato; non accade spesso, ma talvolta succede e sono le radici a chiamare: parole sussurrate, voci di antenati che un tempo vivevano all’ombra del Sass Bianc. Ricordo in particolare una volta d’estate e in qualche altra occasione, soprattutto negli ultimi anni, a fine inverno. Ogni volta mi sono fermato per parecchio tempo ad ammirare la grande cattedrale di roccia che avevo di fronte, pensando nel frattempo ai miei avi materni che vivevano la loro esistenza in questo villaggio dove il sole al mattino arriva presto. Alle loro vite dure, ricche di fatiche sui campi in pendenza. Alle loro storie di emigrazione all’estero. Chissà se nei periodi di lontananza, chiudendo gli occhi, vedevano le pareti del Pelsa e del Civetta, se durante il loro sognare sentivano lo scorrere dell’acqua nella fontana della piazzetta e i rintocchi delle campane della chiesa di Celat; immagino di si. L’ultima volta è stato d’autunno, ai primi di ottobre. Cercavo le suggestioni della notte ed il bramito dei cervi. Ho parcheggiato poco dopo il ponte, poi ho proseguito a piedi guidato dalla luce della torcia. Dalla piccola piazza proveniva la dolce musica d’acqua della “brenta” e una mezzaluna perfetta passeggiava sopra la cime dello Spiz de Medodì; i bramiti giungevano potenti dai prati sotto il borgo e non c’era nessuno in giro, solamente io con la mia pila, che mi aggiravo fra le case come un ladro; un ladro di storie e stelle, che vagava alla ricerca delle proprie radici nel villaggio che al mattino vede sorgere il sole sopra il Pelsa.
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