IL TELEFONO
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Il telefono fece la sua comparsa nella casa di fronte al Pelsa nel 1984. Fu un anno importante quello in cui si disputarono le Olimpiadi di Los Angeles; la Apple lanciò il suo primo computer e nella “stua” della casa dei nonni comparve l’apparecchio telefonico; e fu un fatto epocale, un salto tecnologico mica da ridere. Fino a quel momento la vita infrasettimanale dei nonni era un mistero che poteva essere svelato solamente nel fine settimana, ovvero quando i Cavalieri della 203, dopo i canonici trentacinque minuti di viaggio, approdavano nella frazione che fronteggia Ghisel. Solamente allora si potevano conoscere i dettagli dei sette giorni appena trascorsi. Solo nel caso di eventi calamitosi, come ad esempio decessi non oltre il secondo grado di parentela, malori gravi o qualche altro accidente importante, si poteva ricorrere all’opzione “cabina telefonica del bar”. Ma scegliere questa opzione, richiedeva lunghi momenti di riflessione; e poi, nel caso fosse stata presa la solenne decisione di usufruire del servizio telefonico pubblico, l’operazione risultava alquanto macchinosa. Dapprima occorreva recarsi al bar percorrendo quasi un chilometro in leggera salita, poi bere qualcosa “par creanza” e infine operare il fatidico scambio Lire/gettoni. Ultimate queste operazioni, se la cabina di colore beige era libera, l’utente poteva finalmente entrare in quella scatola insonorizzata che sembrava la stessa in cui venivano rinchiusi i concorrenti dei quiz di Mike Bongiorno. Tutto ciò, alla metà degli anni ’80, iniziava ad apparire anacronistico; la tecnologia avanzava come pure l’età dei nonni, e così, visto che in casa a Belluno il telefono era presente ormai da qualche anno, sarebbe stato interessante poter comunicare direttamente con i nonni senza dover passare per la cabina. Dopo la ponderata decisione, venne tirato il filo dalla “palina” vicino casa e finalmente fu installato il telefono grigio con la rotella, uguale a quello che avevamo in soggiorno a Belluno. L’apparecchio trovò alloggio su di una mensola apposita situata in un angolo di quella “stua” appena perlinata. Sopra il telefono c’era la “pendola” che pareva scandire il tempo di quelle telefonate, e talvolta, durante le sempre brevi conversazioni, potevo conoscere anche l’ora precisa, annunciata dai potenti “sdeng” battuti con forza dall’orologio, che si intromettevano disturbando quei dialoghi in dialetto “de San Tomas”. Sembrava quasi un sogno poter avere notizie in tempo reale da lassù; ora potevamo chiamare per conoscere chi era morto in paese, oppure per sapere quanta neve era scesa. Perfino avvisare che domenica avremmo pranzato di fronte al Pelsa o magari per chiedere semplicemente “come vala”. Noi a Belluno eravamo abituati al telefono, e pur con opportuna parsimonia, lo utilizzavano con disinvoltura. A San Tomaso, invece, occorse un po’ di tempo per familiarizzare con la novità arrivata in casa nel 1984. La “SIP” stampigliata sulle bollette incuteva rispetto, e poi c’erano i temuti “scatti”. Così, almeno nei primi tempi, la frequenza delle telefonate era appena superiore a quella del periodo antecedente, ovvero a quello in cui occorreva recarsi alla cabina, e i dialoghi erano in stile telegramma per tentare di accorciare i tempi di chiamata. Poi, con il tempo, anche i nonni familiarizzarono con numeri e prefissi, ed il telefonarsi a vicenda divenne una piacevole abitudine quasi quotidiana. Il tutto durò qualche anno, poi quella epopea di telefonia analogica-dolomitica, si spense definitivamente. I nonni si ritrovarono a riposare per sempre sotto alla chiesa che guarda il Civetta e il telefono rimase muto, sostituito qualche tempo dopo dal primo cellulare entrato in casa; che per telefonare da San Tomaso dovevi puntare il ripetitore di Col Mandro e rimanere perfettamente immobile, pena l’immediata caduta della linea. Riposò sulla sua mensola per circa vent’anni il vecchio telefono che nessuno ebbe il coraggio di buttare nel cassone dell’ecocentro; come una sorta di reliquia che ricordava i bei tempi, di quando c’eravamo tutti e “via par Colaz l’era ‘ncora i prai”.
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