LA CAMPANA DI GHISEL
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C’era un caldo di quasi estate quel pomeriggio in cui ho percorso la nuova strada forestale che conduce a Ghisel e che termina nei pressi della fontana. Nonostante la siccità, l’acqua della “brenta” cantava con voce potente; chissà da quale fonte misteriosa, nascosta nel ventre del Pelsa, sgorgava quell’acqua così limpida e fresca e perfino intonata, mi chiedevo. Dopo essermi abbondantemente dissetato ho raggiunto le case; non c’era nessuno all’Oasi Papa Luciani, così mi è sembrato bello infilare la mano nel buco presente nel fianco del piccolo campanile di legno; ho stretto la corda fra le dita e ho iniziato a tirare fin quando la campana ha preso vita. Erano gioiosi i suoi rintocchi, ha un bel timbro la campana di Ghisel; sembrava felice di far sentire la sua voce argentina che in quegli istanti stava riaccendendo la vita in quel borgo silente. Poi l’ho lasciata andare per inerzia e mi sono recato al margine di quel prato inclinato che un tempo era suddiviso in “ciamp de tera fina, bona par le patate”. Mi sono appoggiato ad un frassino che avrà la mia età; era piccolo quando, da bambino, sbinocolavo dai Mos’ce per tentare di carpire i segreti di Ghisel. Ora mi trovavo all’ombra dei suoi rami; siamo cresciuti entrambi nel frattempo, pensavo mentre ammiravo le foglie colorate di un verde brillante. Anche quel pomeriggio avevo portato con me il binocolo, ed è stato un osservare al contrario il mio piccolo mondo. In quel momento mi trovavo dentro ad uno dei miei sogni di bambino; quanto avrei desiderato, allora, fare un giro a Ghisel. Visitare le misteriose case e magari arrivare fino a lambire il rù omonimo, il mio compagno di tante notti vissute di fronte al Pelsa. Ma a Ghisel nessuno mi ci ha mai portato, “…via là no le pì nia…”, dicevano; e a me spiaceva che aldilà della valle apparentemente non ci fosse alcun vivere. Poi la vita corre, i sogni cambiano e poi un giorno ritornano; a Ghisel, finalmente, ci potevo andare da solo, e diverse volte ci sono andato. L’ultima è stata proprio quel pomeriggio in cui c’era il caldo dell’estate ed io ero lì a cercare un sentiero che poi ho trovato e percorso. Ho seguito un’esile traccia che mi ha portato a scoprire altre radure nascoste che un tempo erano campi coltivati. E poi muri a secco e, man mano che avanzavo, una natura sempre più primordiale. Al termine della traccia, nei pressi della “Val de Confin, ho incontrato il Rù da Ghisel; è stato emozionante ascoltare la sua voce, che poi è la voce del Pelsa, da così vicino. E poi rinfrescarsi con la sua fredda acqua che, poco più in basso, sarebbe precipitata a valle formando la cascata il cui canto ha accompagnato tante mie notti montane. Poco più tardi ero nuovamente all’ombra del grande frassino ad osservare ancora una volta l’aldilà della valle. Attraverso le lenti del binocolo che fu di mia nonna, ho rivisto quel mondo, quella vita che scorreva a mezza costa aldilà del Cordevole; c’era tutto, l’orto, le “pite” e il tabià, “ma nono che spachea su legne e ma nona che batea la faoz”; e c’ero pure io, che correvo e saltavo dai muri di sassi e che guardavo l’escavatore che stava costruendo “la strada de sot”. Era un vivere semplice e bello, con le parole in dialetto che si mescolavano con il profumo del fieno. Erano giorni che sono diventati ricordi che sempre ritornano quando i tarassaci colorano i prati. Poi ho messo via il binocolo e sono ritornato al campanile di legno; ho ripreso in mano la corda della campana ed ho iniziato a tirare, ma questa volta con meno forza. La campana suonava ad un ritmo più lento mentre il sole accarezzava la cima di Pape. Poi, mentre i rintocchi sfumavano, ho chiuso gli occhi e ho cantato piano dei versi importanti, scritti esattamente cinquant’anni fa da Francesco Guccini; “La casa sul confine dei ricordi, La stessa sempre, come tu la sai, E tu ricerchi là le tue radici, Se vuoi capire l’anima che hai.” Magiche Dolomiti!!
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