LA DIGA
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Quando i faggi presenti nei boschi che sovrastano Longarone iniziano ad arrossire, è tempo di pensieri per ciò che è stato cinquantanove anni fa. Ho visto nascere venticinque autunni all’incrocio delle quattro valli, e nei primi giorni di ottobre puntualmente riaffiorano emozioni ormai radicate nell’anima. Un quarto di secolo vissuto a lavorare nel paese dove il Maè e il Vajont si uniscono al Piave. Longarone, con le sue montagne che si alzano dal greto del fiume Sacro, fa parte della mia vita; conosco certe nebbie che salgono dal fiume a novembre, e poi il vento di marzo e il suono delle campane che talvolta arriva fino alla zona industriale. Longarone è i suoi palazzi in cemento armato e il campanile di Pirago, miracolosamente sopravvissuto al disastro, che si alza fiero alla sommità dell’omonimo colle. E poi la diga, l’austero e triste simbolo di questo paese cancellato e rinato. La vedi lì, con il suo colore quasi bianco, incassata nella stretta e severa gola scavata dalle acque del Vajont. Muta sfinge di calcestruzzo. Diga imponente tramutatasi in triste lapide. E quando, partecipando alla camminata de “I Percorsi della Memoria”, percorri la vecchia strada del Colomber, mentre risali lungo la forra improvvisamente te la ritrovi di fronte. Ad ogni passo la senti sempre più vicina ed incombente. Attrae e respinge allo stesso tempo. Poi arrivi al ponte che attraversa la gola e ti pare quasi di toccarla. Ed in quel luogo angusto e severo perdi le dimensioni dello spazio in cui ti trovi. Sei sospeso a circa 120 metri dal fondo del torrente e non lo percepisci del tutto. E di fronte, a pochi metri, la diga sale prepotente verso il cielo per altri 140 metri. Totale 261,60 metri d’altezza. Fa impressione, incute timore e toglie il fiato ammirare la sua struttura a doppio arco. Lo scrosciare dell’acqua del Vajont, che precipita con spettacolare cascata fino a ritrovare il suo greto naturale, completa un insieme di sensazioni che accompagneranno per sempre. Camminare sul coronamento è un’altra esperienza forte. Sotto i piedi, attraverso le fessure delle grate, i ferri piegati verso valle raccontano la potenza immane dell’onda. E si percepisce di camminare su di una sorta di cupola. Guardando verso Longarone si sente il vuoto in quanto la diga spancia di diversi metri sul suo asse verticale. Voltandosi dalla parte opposta la visione si fa più rassicurante. L’arco si appoggia quasi dolcemente fino a raggiungere la frana. Dal centro diga si vede Longarone. E si immagina ciò che è stato. O forse è pure impossibile immaginare. Aldilà della forra un piazzale di cemento. Tutto cio che rimane dell’ardita cabina di comando sospesa sull’abisso. Affacciandosi sul vuoto stavolta la si vede scendere paurosamente verso il fondo della valle. Appare elegante ed al contempo austera la grande diga diventata silenziosa lapide. Capolavoro di tecnica innalzato nel luogo più sbagliato. Con il suo calcestruzzo ancora perfetto, appena scalfita alla sua sommità dall’onda maledetta. Superata ma non vinta. Severa lapide a ricordare ciò che non si dovrà mai dimenticare.
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