NUVOLE
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Dove andavi, nuvola di metà autunno, che accarezzavi i boschi del Pelsa colorati d’inizio novembre? Veleggiavi incerta a mezza costa, lambendo i larici che viravano verso l’arancione novembrino in quei giorni in cui lumini e fiori nuovi ornanavano le tombe tirate a lucido. Ti guardavo, mentre aspettavo la sera, appoggiato alla ringhiera del “soler” di quella casa dentro alla quale non si udivano più quelle voci anziane e stanche che attendevano l’inverno. Io stavo riscoprendo un tramonto d’autunno, tu nel frattempo incontravi altre nubi che avrebbero portato pioggia all’ora in cui il nonno ascoltava il “comunicato” del Tg1. C’era un miscuglio di pensieri quel giorno in cui, dopo tanti anni, ero ritornato di fronte al Pelsa a veder scendere la sera e a vivere un paio di notti in compagnia del canto del Rù da Ghisel. C’era la semplice, dolce emozione di essere lì, dove tanti anni prima avevo vissuto altri giorni di nuvole e silenzi. Era quello il tempo in cui allora il vivere iniziava ad arrendersi all’inverno che sulle cime era già certezza; la legna era già accatastata in ordine nella “legnera” e sotto alle due finestre della cucina. I prati erano ingialliti e coperti dalla brina del mattino, l’orto e i campi a riposo; rimaneva da accudire il maiale nel suo ultimo mese di vita, attendere la prima neve e prepararsi alla “becaria” che sarebbe andata in scena al termine del mese triste. Era quello il tempo della forca dal manico annerito che spingeva le prime fascine nella bocca vorace del fornel, erano i giorni delle piogge pesanti e insistenti e delle cime avvolte da nuvole che lassù scaricavano neve. Pure quella sera sarebbe stata pioggia, preannunciata da un vento umido che saliva da sud; era quasi ora di cena, e in casa aleggiava il fantasma della pentola celeste in cui bolliva la minestra e il crepitare della legna di larice che bruciava nella cucina economica marchiata Splendid. Ma soltanto la pioggia che iniziava a picchiettare sul tetto di lamiera del tabià era realtà, il resto erano il ronzio monotono della piastra a induzione e le chiacchiere della televisione a tenermi compagnia in quella serata di nuvole e ricordi. Fra quelle mura rinnovate ritrovavo voci e gesti, e soprattutto il tempo lento di allora, quello di una pioggia d’inizio novembre che ora si era fatta più forte. La televisione mandava bagliori colorati e canzoni rap, non c’era Demetrio Volcic in bianco e nero, in collegamento da Mosca, a raccontarci cosa accadeva nell’allora Unione Sovietica. Non c’era nemmeno la nonna, che lavava i piatti con l’acqua calda pescata dalla vasca della cucina economica utilizzando la lattina dell’olio Sasso dotata di apposito manico artigianale. C’ero soltanto io a vivere una sera di pioggia ora scrosciante e vento umido che faceva ondeggiare i larici appena illuminati dalla luce arancione dei lampioni. Poi la notte, vissuta in un silenzio rotto soltanto dalla pioggia che a tratti batteva sui vetri e dallo scricchiolare delle travi, che riportavano altri ricordi ormai lontani, di respiri cadenzati e pesanti e dei rintocchi della pendola che scandiva la lentezza di quelle notti d’autunno. Ore che sembravano infinite mi separavano da un’alba umida, colorata di grigio e giallo ormai spento dei larici. Aldilà dei vetri, i rami fradici della vecchia “zaresera” e la “casa dell’eco” che si mimetizzava in quell’atmosfera di nebbia e pioggia sottile; e poi le nuvole, appese ai ripidi versanti del Pelsa, che promettevano ancora pioggia che mi avrebbe fatto compagnia fino al momento del mio ripartire, appena venuto buio, in direzione della piccola città. Al mio ritorno, sarebbero stati potenti silenzi di novembre e la prima neve a risplendere sulle cime.
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