NOVEMBRE 2018
AUDIO
Passata la tempesta sulle valli era sceso il grande silenzio di novembre. Il Biois e il Cordevole erano rientrati nei loro alvei sconvolti e nell’aria non si udiva più il rombo continuo degli elicotteri che facevano la spola fra una località e l’altra; il loro fragore era stato sostituito da quello dei gruppi elettrogeni che alimentavano le linee elettriche ancora in stato precario. Erano quelli i giorni dell’estate di San Martino, ed in effetti le temperature erano miti ma, quella domenica, pesanti nuvole scure gravavano sopra Cencenighe. Un tempo di pioggia leggera che scendeva a tratti e nel bosco le foglie morte e fradice dei faggi mescolate al “front” dorato dei larici; la tempesta aveva messo in anticipo la parola fine ad un autunno che, fino al ventisei ottobre, era stato perfetto. Poco dopo l’ora di pranzo ero in cammino lungo la strada forestale che porta sul monte; un’aria stanca mi faceva compagnia, e la visione delle centinaia di tronchi aggrovigliati metteva addosso una grande malinconia. L’umore tornò a rialzarsi un poco nei pressi del secondo tornante, dove il Crocifisso giaceva al suo posto abituale, perfettamente incolume, appena sfiorato da decine di abeti schiantati da quel vento che non si può dimenticare. Venti minuti più tardi ero sull’orlo del grande salto, ad ammirare quell’autunno oramai completamente spoglio, e ad ascoltare quel silenzio profondo che faceva male. Ora che tutto si era calmato, la montagna stava provvedendo a curare le sue ferite ed io, e in quel pomeriggio di pioggia intermittente, mi sentivo quasi fuori posto. Sarà stato il cielo grigio, o quella pioviggine che cadeva e non cadeva, a dare quell’immagine funerea al monte. Forse non sarei nemmeno dovuto venire quassù, mi dicevo. Forse il monte voleva starsene da solo a guarire i suoi mali. Mi sentivo di troppo in quel silenzio di pietra che avvolgeva le montagna. Sentivo di aver ferito la sua anima spenta, e anche la mia. Seduto su una “zoca” bagnata, pensavo che la montagna, in fondo, non è solo splendidi colori pace e tranquillità; no, è anche un ambiente che può diventare severo e silenzioso, che può respingere. Intanto le nuvole salivano i costoni coperti di larici stanchi, mentre nel bosco crepitavano gli alberi schiantati; e in quei frangenti crepitava anche la mia anima. Il monte era triste in quei giorni umidi, chiuso in un silenzio feroce. I miei passi sembravano rimbombare in quella surreale assenza di suoni. Gli alberi rimasti in piedi si scrollavano di dosso la leggera pioggia che continuava a scendere. Piccole gocce simili a lacrime si perdevano nel sottobosco bagnato. Scricchiolii sinistri provenivano dagli abeti che giacevano a terra; era la voce del bosco, una voce severa che sembrava dirmi “grazie che sei venuto fino quassù, ma ora vai. Lasciami solo con il mio dolore.” E allora, mentre la luce del pomeriggio iniziava a scemare ho iniziato la discesa. A passo veloce, cercando di fare meno rumore possibile per non disturbarlo. Le prime ombre della sera rendevano ancora più struggenti quei momenti. Poi, verso la fine del sentiero, il monte ha voluto farmi il suo ennesimo regalo. Quel giorno il dono è stato un incontro ravvicinato con una famiglia di mufloni. Ci siamo guardati per un po’, poi sono saliti lungo una ripida pala di bosco. Un lampo di vita in un pomeriggio spento, un segnale di speranza in quel difficile momento. Il bosco in quegli attimi mi ha detto: “Sono vivo. Ferito, ma sono vivo. Dammi tempo, ce la farò”. Ed io, quando sono arrivato alla macchina, ho trovato una sera nascente di novembre e la consapevolezza che in quei giorni, per la montagna e forse anche per gli uomini, stava iniziando un tempo nuovo.
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