NEBBIA DI QUASI INVERNO
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Era tempo di neve precoce, di freddo inverno che aveva già avvolto la piccola città. Giorni umidi, foschie che a metà pomeriggio si tramutavano in nebbia e la prima neve, che scintillava alla luce dei lampioni che ormai si accendevano alle sedici e trenta. Era tempo di fari, che al calar della sera correvano veloci e indifferenti lungo via Prade sciabolando lampi di luce che rischiaravano per un momento i severi cipressi che attendevano la notte imminente. Era a metà pomeriggio che mi apprestavo ad inoltrarmi lungo il dritto viale alberato. Lasciavo il rumore di traffico e ad ogni passo mi avvicinavo a quel luogo di eterni silenzi; nel mezzo, lo stanco gorgogliare delle malinconiche acque del Rù delle Moneghe, il cui quieto scorrere accompagnava il mio camminare. Mentre il rumore di automobili andava sfumando, nella nebbia si materializzava il monumentale ingresso del camposanto. Appena varcato l’austero cancello iniziò a nevicare; ed il silenzio divenne ancora più silenzio. Candele consumate e fiori sfiniti raccontavano del due novembre che, per un giorno appena, aveva unito vivi e morti all’ombra dei cipressi. Un tacere di fine novembre regnava sul camposanto. Malinconie d’archi di pietra e muri giallini; e lapidi e statue e croci spuntavano severe dal bianco che andava ghiacciando. Foto in bianco e nero, talune invece a colori, date di nascita e di morte; e in mezzo a quelle date, la vita. Nell’intervallo scandito da quei freddi numeri d’ottone la storia di ognuna di quelle esistenze che ora vivevano un silenzio di neve. Sussurri che nel silenzio dell’imbrunire diventavano grida. Frasi auliche, parole severe che si scorgevano appena sulle antiche lapidi sbiadite. Sguardi vecchi di oltre un secolo incrociavano i miei occhi. Baffi all’insù, cappelli neri, talvolta uniformi cariche di medaglie. E poi visi seri eppure gentili ornati da trecce e scriminature precise. Volti di persone che oggi sono anime raccontavano sottovoce, sul far di una sera di fine novembre, le loro vite diverse e lontane. Facce in bianco e nero ed echi di voci che si accavallavano nel quadrilatero di marmo e morte. E poi frusciare di quella neve nuova che si staccava dai tetti delle colombaie, giorno che andava morendo e tenui lumini ad illuminare porticati silenti. Croci di bronzo, fregi di pietra e lettere di ottone ossidato che componevano memorie e date intrise di pianto e dolore antico. Aldilà degli archi, scure tombe emergevano dai prati imbiancati. E poi ancora altre croci e vasi, fiori rinsecchiti e lumini consumati e spenti. Altre anime vagavano lungo i viali fangosi e deserti sfiorando i muti cipressi. Poi la sera, con la neve che ghiaccia e il ghiaino che scricchiola. Era ora di andare, lasciando dietro ai puntuti cancelli i sussurri gridati da quelle anime che raccontavano storie lontane e forse quasi dimenticate.
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