UNA MATTINA ALL’ I.N.A.M.
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Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro le Malattie; o più semplicemente I.N.A.M. Era una cosa seria l’I.N.A.M, che al tempo della mia infanzia aveva già cambiato denominazione e si chiamava ULSS ma per tutti era sempre e solo I.N.A.M, un acronimo severo come il palazzo che ospitava lo storico ente assistenziale. Faceva serietà I.N.A.M, non come ASL/ULSS/ULS UNO DOLOMITI, e il palazzo oggi semideserto situato in via Feltre non era colorato di un bel rosa relax come oggi; si presentava rigorosamente dipinto di un grigio Prima Repubblica che incuteva soggezione. “Doman don fin dù a l’I.N.A.M” diceva la mamma; che significava scendere le scalette e percorrere cento metri per ritrovarsi subito di fronte al pesante cancello in stile carcere. Ed io mi chiedevo sempre quali attività si svolgessero in quell’edificio dalle mille finestre; sembrava quasi un ospedale, ma non poteva esserlo perché non c’erano i degenti, e poi l’ospedale era metà in centro e metà in Viale Europa. Chissà, allora forse lì dentro c’erano uffici, ma nemmeno ciò poteva essere, perché si intravedevano uomini e donne in camice bianco che sicuramente erano medici. Quali attività contenesse l’austero edificio l’avrei scoperto pochi minuti più tardi, appena varcata la porta a vetri; il tempo di mettere piede nell’atrio con il pavimento di marmo ovviamente grigio ed ecco apparire di fronte a me l’intera e potente burocrazia italiana. Un mondo serio e composto formato da uscieri in divisa, direttori in giacca e cravatta, impiegate con la gonna grigia sotto il ginocchio e infermiere nervose con gli occhiali e la cuffia. E poi ancora dottori indaffarati con lo stetoscopio al collo, sale d’aspetto con le sedie di plastica ovviamente grigia, cartelli con scritto “è severamente vietato fumare” che minacciavano terribili sanzioni da pagare in Lire, sportelli protetti dal vetro con l’obló rotondo che nemmeno a Fort Knox e tavolini con il piano di formica verdolina muniti di penna legata con lo spago. In quel regno odorante di disinfettante si poteva, ad esempio, fare un prelievo del sangue oppure una “lastra”; e poi compilare moduli, pagare ticket, timbrare carte ricolme di sigle e codici indecifrabili e magari anche farsi togliere un dente. E chissà quante altre misteriose attività venivano svolte da tutte quelle persone dal viso serio che aprivano e chiudevano porte. Scale e corridoi di marmo lucido che restituiva l’eco del tik tok dei mocassini e poi lunghe attese fissando le anonime porte marroni. Era strano essere all’INAM, pensavo, perché mi sembrava di essere in ottima salute, ma qualche presunto acciacco era quasi doveroso averlo; forse un po’ di scoliosi, oppure, molto più probabile, una carenza di ferro da risolvere ingurgitando litri di uno sciroppo dal colore nero e dal gusto squisito. Per scoprirlo era certamente necessario un prelievo del sangue, e già immaginavo il terrificante dolore prodotto dall’ago di acciaio montato sulla siringa di vetro. A farmi riemergere di soprassalto dai miei cupi pensieri ci pensava l’infermiera che ci chiamava con tono deciso; appena il tempo di sedermi all’interno dell’ambulatorio e l’ago era già piantato nell’avambraccio, e quando arrivava il lancinante dolore era già tutto finito. Mi trascinavo dolorante fino a raggiungere la sedia di plastica dove avrei pazientemente atteso la mamma ora impegnata nel compilare un modulo pieno di caselle da barrare con una “x”. Ora che la penna aveva ripreso il suo posto nel portapenne ovviamente grigio, era finalmente giunto il tempo di uscire dal rigoroso palazzo. Tre minuti più tardi ed eravamo al panificio; “…vosto che, en krapfen o ‘na meringa? Te ‘stat bravo encoi…”. Sceglievo sempre la meringa e poi, una volta arrivato a casa, prendevo il pallone e mi recavo a giocare in cortile, fino a quando, ovvero pochi minuti dopo, sarei stato solennemente sgridato da qualche autodefinitosi anziano a cinquant’anni. E l’ I.N.A.M, nel frattempo, era già divenuto un ricordo lontano.
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