LA FINESTRA SULLA VALLE
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A San Tomaso si respirava la dolce tranquillità dei giorni di quel primo Natale degli anni ’90. C’eravamo ancora tutti, la casa era calda e fuori c’era la neve, tanta neve. Quell’anno l’inverno era iniziato presto, e a metà dicembre i prati e i campi già riposavano sotto una spessa coltre bianca; poi era arrivato il freddo, quello vero, a sentenziare che al tempo dell’equinozio era stagione dei silenzi per davvero. In cucina e nella “stua” un caldo da sciogliersi che pareva di essere a Belluno in pieno luglio, fuori un freddo siderale che ghiacciava anche i pensieri. Giorni quieti da far passare, un giro a Cencenighe per fare la spesa, qualche discesa con la slitta lungo la strada comunale sotto casa e poi l’attendere la cena guardando la TV in bianco e nero mentre era in atto l’operazione di scongelamento del corpo adagiato comodamente sul fornel. Poi ci avrebbe pensato la minestra rovente a completare il riscaldamento del corpo che stava iniziando a prepararsi alla notte imminente. Dopo il lavaggio dei piatti e le prime notizie del TG1 il fuoco iniziava a sfumare e i nonni si congedavano mettendo la parola fine alle attività giornaliere, e così pure io incominciavo i preparativi per la lunga notte che avrei trascorso al piano di sopra. Aldilà della porta beige, quella che dava sulla scala interna, era praticamente inverno ed io ero il novello Amundsen, senza cani da slitta ma con il pigiama felpato e i calzini di lana e la radio sottobraccio per ascoltare la partita dell’Alleghe dall’interno della suggestiva location rappresentata dalla stanza dai muri rosa. Spegnevo la luce della cucina e, appena aperta la porta, il freddo del giroscale arrivava immediato come una sberla; avrei dovuto salire i gradini a due a due e pure di corsa per poi infilarmi immediatamente sotto il pesante piumone, ma c’era un qualcosa che ogni volta catturava la mia attenzione e mi faceva compiere una breve sosta. La finestra sulla valle era sopra la scala, al centro della parete nord della casa. Quell’occhio quadrato posto al centro del “mur a sas” guardava d’infilata la Val Cordevole e tutto il pendio dove c’erano i campi. Si scorgevano i tetti delle case di Tocol, ornati dalle luci di Natale che si riflettevano sulla neve ghiacciata, e in cielo infinite stelle. C’era un freddo potente aldilà del vetro da tre millimetri, e lontana sembrava l’estate precedente, quando dalla finestra potevo vedere se c’era qualcuno al lavoro nei campi. Ora, se nel congelatore riposavano i sacchetti di fagioli e nell’angolo della cantina c’era il mucchio delle patate, era merito di quel faticoso lavorare; anche il buon caldo di legna, sprigionato dal “fornel” e dalla cucina economica, era frutto di un costante lavoro che mi aveva visto partecipare in qualità di trasportatore, con la mansione di pilotare con crescente perizia la “barela” contenente la legna spaccata che ora giaceva in parte accatastata sotto le finestre della cucina e in parte nella “legnera”. L’inverno era stato preparato bene e ora i nonni dormivano tranquilli e dormiva pure la loro terra, acquistata con grandi sacrifici e curata con amore, e riposavano pure i boschi e le montagne intorno. Ora era giunto il tempo del riposo anche per me che, nonostante il freddo, mi ero perso ad ammirare quel paesaggio gelido e silenzioso. Pochi passi ed ero già bene infilato sotto il piumone, e dopo qualche minuto di tremarella dovuta a freddo, ecco arrivare il piacevole tepore e la quiete delle notti d’inverno. C’era la luna alta sopra il Pelsa e la radio raccontava che, a pochi chilometri di distanza, l’Alleghe stava battendo il Saima Milano; e questo bastava per essere davvero felice.
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