LA VOCE DELLE MONTAGNE
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Le montagne hanno una voce, e sanno chiamare; e chiamavano anche allora, al tempo dei vent’anni quando la vera trasgressione era salire in macchina e puntare verso nord, in direzione Cencenighe e San Tomaso. Di andare verso sud, verso quella “bassa” dove raccontavano vi fossero vita e divertimento, non mi interessava per nulla. Poche volte, forse in tre o quattro occasioni, ho valicato il Fadalto e mi sono ritrovato a vagare fra capannoni e rotonde tutte uguali; ed era per andare a girare con i kart, collocati anch’essi dentro un capannone pieno di luci dalle parti di Villorba. E fu in una di quelle sere che, sconsolatamente fermi ad un incrocio all’interno di una zona industriale mentre eravamo alla ricerca del kartodromo perduto, una signorina piuttosto disinibita aprì la porta posteriore della Golf. E sul sedile posteriore della Golf c’ero seduto io, che rimasi pure un po’ sgomento mentre osservavo questa donna leopardata che desiderava salire in auto; di certo il suo scopo non era venire con noi al kartodromo. Quella sera capii definitivamente che quel tipo di vita non faceva decisamente per me. Il mondo delle discoteche, dei locali alla moda, della musica techno e del tirare mattino, non era il mio mondo. E non era nemmeno facile ammetterlo a me stesso, che a venti e pochi anni, magari ti vorresti pure adeguare a ciò che fanno gli altri, alle loro passioni, pena il rischio di rimanere tagliati fuori. E nel frattempo le montagne chiamavano e mi spiegavano che la verità stava scritta in quei temi delle elementari che avevo conservato; la vera anima, quella di “Cavaliere della 203”, era impressa su quelle pagine, raccontata da quelle parole scritte in corsivo con la penna stilografica. Ogni lunedì narravo il mondo di lassù, quello di fronte e sotto il Pelsa; narravo del Biois e dei faggi colorati d’autunno, dei boschi e della campana che suonava il mezzogiorno. Quello era il mio mondo, in fondo; non quello della confusione, dei balli sfrenati e dei deejay; occorreva una certa forza per evitare di entrare a far parte di una vita che per me sarebbe stato solamente uno sterile “adeguarsi”. Non biasimavo di certo chi aveva scelto quel vivere, anzi; spesso mi sentivo io fuori posto, quasi condannato a rimanere rinchiuso fra quelle montagne che sottovoce chiamavano. Eppure, quando ero lassù, sentivo che sarebbe stato ingiusto non rispondere a quel chiamare; è capitato che abbia perso qualcosa, come quando hanno eliminato la “brenta su ‘nte stradon” ad esempio, oppure quando hanno costruito la strada della cava dei Piegn. E a Cence, quando hanno smantellato la scala esterna della chiesa, quella che saliva “su ‘n questra”. Cose apparentemente piccole, insignificanti, che forse non meritavano di essere nemmeno ricordate. E invece quel canto “dela brenta” che non potevo più sentire, pareva quasi un monito, un qualcosa che mi stava dicendo “scolta, vardà che tes drio a te perde valk de importante, calche tok de la to vita”. Poi, per fortuna, e nemmeno troppo tardi, ho capito; c’era quel tanto che hanno lasciato quelli che c’erano prima da conservare, e le montagne mi stavano dicendo che dovevo essere io uno dei custodi di tutto ciò. “Carabatole” e storie di vita, dialetto e valori contenuti all’interno di quel vivere semplice e faticoso. Tutto questo mi hanno consegnato le mie montagne; un fardello prezioso che sono orgoglioso di portare, che non pesa e che mi ha reso un tutt’uno con questa terra agordina.
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