L’ANIMA DI FEBBRAIO
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Febbraio era una carezza che consolava le montagne provate dai grandi freddi dell’inverno. Arrivava discreto, quasi in punta di piedi portando con sé cieli dalle tinte più chiare e giornate più gentili. Il mese corto non possedeva la rude durezza di dicembre e gennaio, i mesi della poca luce e del gelo che imprigiona i boschi e gli uomini. Il mese del carnevale portava il sommesso canto di quell’acqua che poco prima era neve e che ora gocciolava dai tetti quando il sole si trovava sulla verticale dello Spiz de Medodì. Mentre i salami stagionavano nella cantina dalla porta azzurra, qualche macchia d’erba ancora addormentata si apriva sui pendii che guardavano a sud; a volte pareva quasi di udire il respiro appena accennato di una primavera che non era più miraggio lontano. L’erba, la terra dei campi, lo scorrere dell’acqua della fontana, sembravano quasi una novità; era la vita che riemergeva dai profondi silenzi del duro inverno di lassù dove il sole a dicembre si faceva vivo appena dopo le dieci per poi sparire alle due. Ora invece, il tempo dell’inverno non era più in stallo e l’allungarsi delle giornate era quasi una cavalcata quotidiana ancora capace di meravigliare quegli anziani che di inverni ne avevano vissuti tanti. A febbraio, all’ora in cui la pentola blu era sul fuoco per la cena, non era più buio profondo ma era sera appena iniziata e quando arrivava implacabile il momento del nostro partire per fare ritorno nella piccola città, non avevamo più stelle da ammirare. Erano domeniche che sapevano di nuovo, da vivere all’aperto giocando su quella neve che ora era docile e morbida. Dopo pranzo partivamo da una Belluno che offriva profumi di bucaneve e viole per recarci lassù dove si puó ammirare il Fertazza che chiude la Val Cordevole a nord. Acqua di disgelo che scorreva lungo la provinciale e fuori di casa le “pile de legne” di dimensioni decisamente ridotte; ormai in certe giornate tiepide si poteva tentare di ridurre le ore di fuoco e si iniziava a pensare alle prime attività della primavera che sarebbe stata. Si respirava quell’aria più mite e sul mezzogiorno, a volte, si sentiva netto quel sentore di marzo. Pareva ormai che certe durezze d’inverno fossero ormai ricordo, ma non era proprio così; lo ripetevano come un mantra a noi giovani inesperti di nuvole e neve, che era febbraio il tempo delle grandi nevicate. In quei brevi discorsi rammentavano inverni che erano rimasti scolpiti nella memoria di chi li aveva vissuti lassù. Il ventinove, il cinquantuno, il settantotto, ogni inverno una storia; la grande “levina” scesa “inte in te la val”, che furono costretti a scavare una galleria per poter transitare sulla provinciale, e poi le grandi valanghe del 1978, con l’agordino isolato per giorni. Io avevo il ricordo fresco del 1985, l’anno del grande freddo e della grande neve che scese copiosa nel momento perfetto, ovvero all’inizio delle mitiche Universiadi Invernali che si erano disputate in provincia di Belluno. Era stato un inverno mitico quello del 1985, con il freddo potente dell’Epifania, le Universiadi che avevano reso importante la città di Belluno e con l’Alleghe che per la prima volta nella sua storia era approdato in finale scudetto. Febbraio, allora, era il mese in cui volgeva al termine il campionato di hockey e si iniziava ad intravedere all’orizzonte una nuova primavera che poi sarebbe ritornata ad essere illusione lontana. Le avrebbe annunciate Bernacca quelle nuvole che di lì a poco avrebbero abbracciato le montagne; poi sarebbe stata ancora una volta quella grande neve promessa dai vecchi e nuovi silenzi sarebbero calati sulla valle. Ancora una volta, lassù, l’inverno a febbraio sarebbe stato ancora certezza.
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