IL CONDOMINIO
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I condomini si ergevano imponenti e fieri in quella terra di mezzo situata fra il centro e la periferia della zona ovest della piccola città. Alti e slanciati parevano toccare il cielo rappresentando una suggestiva modernità. Videro la luce negli anni ’60, inglobando fra loro case e villette costruite nell’immediato dopoguerra. Spuntarono dalla terra uno dopo l’altro in rapida successione in quella zona di piccole colline che guardavano il Piave, e non erano i classici condomini popolari, severi e grigi, che si vedevano in televisione durante qualche servizio del TG1. Erano palazzi di un certo pregio, piuttosto eleganti, che mostravano architetture elaborate e moderne; taluni sfoggiavano ampi terrazzoni posti su livelli sfalsati e ardite cupole catramate che fungevano da tetto. E poi al loro esterno erano sempre presenti eleganti giardini con vialetti di ghiaia e aiuole e alberi spesso fin troppo imponenti. Quelli dei condomini erano ingressi simili a tombe di famiglia. Vetrate e marmi tirati a lucido, cassette della posta come freddi ossari di acciaio e ottone e austeri portoni e zerbini marroni. E poi, appeso ad una delle pareti, il temuto “regolarmento condominiale” che incuteva soggezione in quanto provvisto addirittura di articoli numerati in stile Codice Penale. Negli ingressi condominiali regnava un rispettoso silenzio, e quando vi era presenza di vite erano sussurri quasi sottovoce; buonasera Dottore, buongiorno Direttore, e poi il Signore e Signora che precedeva l’inizio di qualunque frase rivolta ad altra persona. Dialoghi brevi, formulati durante l’attesa di quegli ascensori color meconio che andavano sù e giù come sarcofaghi semoventi che talvolta si inoltravano perfino nel sottosuolo. Laggiù, dove i pavimenti erano in linoleum bollato di color verdolino, si accedeva premendo il pulsante recante la lettera T bianca su sfondo rosso. Laggiù, in quel mondo tenebroso delimitato da severe porte tagliafuoco, ogni passo, ogni giro di chiave, produceva un sinistro rimbombo. Erano muri ingialliti e sbrecciati, tubi in eternit e porte in ferro dei garage; e poi ancora antri oscuri illuminati da malinconiche luci al neon provvisti di lavandino e fili metallici sospesi ad altezza gola, utili per stendere biancherie che avrebbero raccolto tutta l’umidità di quelle grotte in cemento armato. Manichette antincendio gocciolanti, acqua rugginosa a macchiare e far marcire il pavimento in linoleum, contatori dell’energia elettrica con il dischetto rotante e opachi manometri dell’acqua. Segni neri di copertoni di biciclette a marchiare le pareti color panna e stanche lampadine ad incandescenza ad illuminare labirintici corridoi. Aria stantia e, d’inverno, il cupo e monotono ronzio delle pompe del riscaldamento proveniente dall’oscuro e inaccessibile antro denominato “locale caldaia”. Aldilà delle due porte grigie in acciaio, il cortile; righe gialle sbiadite, macchie d’olio e fuliggine che raccontava di antiche e faticose messe in moto di motori che necessitavano del tiraggio dell’aria. E poi metallici portoni azzurrini dei garage, ringhiere nere e tombini di ghisa e bidoni dell’immondizia grigi e cigolanti. Un mondo, quello dei condomini, carico di regolamenti e divieti e forzate educazioni; quasi dei carceri signorili di quasi periferia, posti ad un passo dai prati dove dimorava la libertà.
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