FINE INVERNO
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“Da San Giuseppe” l’inverno iniziava a deporre le armi. L’aveva affermato con sicurezza anche il Colonnello Baroni mentre indicava sulla lavagna i campi di alta pressione e i venti provenienti dai Balcani. E loro, con l’esperienza dei tanti inverni vissuti di fronte al Pelsa, l’avevano notato già da qualche giorno, da quando la neve sul tetto del tabià si era sciolta quasi all’improvviso e l’acqua della fontana di notte non ghiacciava più. Osservavano il cielo sopra la grande montagna colorato di un azzurro delicato che chiamava primavera, guardavano le “pile de legne” ormai stanche e nel frattempo si riscaldavano al primo vero sole. “…’on pasà fora ‘n altro invern…”, pensavano; sì, forse sarebbe ritornata la neve, magari ai primi di aprile. Avrebbero vissuto l’ennesima “sburia d’aoril”, ma sarebbe durata il tempo di una mattina o poco più e poi i larici si sarebbero svegliati regalando ai boschi un verde brillante e gentile. Ora che la stagione dei silenzi stava battendo in ritirata rifugiandosi sulle cime, pensavano ai lunghi e freddi mesi che avevano vissuto a mezza costa lungo la Val Cordevole. Tutto era iniziato al tempo in cui le lancette della “pendola” erano improvvisamente arretrate di un’ora e nel cimitero le tombe erano ornate di lumini e fiori nuovi. Novembre, questa volta, era stato un mese lungo da far passare; non c’erano più gli animali da governare, non c’era più la frenesia dei giorni della “becaria” al tempo dei larici ormai addormentati. C’era stato, invece, l’ultimo prepararsi all’inverno che già si era presentato sulle cime portando la prima neve. Parte della legna era già accatastata in ordine sotto le finestre della cucina e dopo l’estate di San Martino era giunto il momento della prima accensione del “fornel”. “Da Sant’Andrea” era arrivato il freddo vero, quello che chiamava neve e ammutoliva il Rù da Ghisel; ora le giornate erano divenute davvero corte, con il sole che scavalcava il Pelsa alle dieci e cinque e scompariva poco dopo le due dietro la Cima di Pape. Dicembre era il mese delle lunghe notti e del Natale, del freddo duro e della prima neve; si erano mossi poco in quei giorni che precedevano le feste, solamente la spesa settimanale a Cencenighe e poi poche parole e lunghi silenzi mentre la cucina economica bruciava a tutta forza “legne de fagher”. A fine mese un Natale sobrio e qualche giorno vissuto in allegria in compagnia dei nipoti; un tempo bello da vivere e terminato troppo in fretta. A Pavarui spenti si erano chiusi gli scuri di tante case e c’era stata una sera di fari e brusio continuo che saliva da fondovalle; le luminarie erano state spente ed erano rimasti solamente loro lassù in compagnia delle montagne innevate e dei severi silenzi di gennaio. Ogni tanto una nevicata, un giro ad Agordo “par calche carta” e la domenica pomeriggio l’arrivo dei nipoti a rompere la monotonia di quei giorni apparentemente uguali. Era stato un mese lungo gennaio, implacabilmente gelido come sempre; ricordavano di non avere mai vissuto un gennaio gentile, e quella mattina di fine mese che c’era stata da ritirare la pensione, il freddo era stato davvero intenso, quasi cattivo, e fortunatamente sarebbe stato l’ultimo di quel lungo inverno. Poi febbraio aveva portato altra neve e dolci pomeriggi che a tratti sapevano di quasi primavera e invogliavano ad uscire per assaporare quegli ancor brevi momenti di tepore nuovo. Era trascorso in fretta il mese corto ed ora che la neve sui prati al sole era sciolta e la terra era riapparsa, era tempo di preparare la nuova stagione ormai alle porte. Ancora tre settimane, poi i larici avrebbero sfoggiato le nuove gemme e le “levine” del Pelsa avrebbero iniziato a muovere; finalmente sarebbe stata davvero primavera.
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