LASTE
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Era una domenica di fine aprile di tempo uggioso e nuvole stanche, di pioggia in bilico e rari accenni di primavera appena iniziata. Un tempo buono per riposare accanto alla stufa ancora accesa oppure da consumare girando in macchina alla ricerca di luoghi e storie. La vettura, in quel primo pomeriggio, puntava pigramente verso Caprile che, come Cencenighe, è incrocio di strade e di acque; è giunti a “Ciaurì” che bisogna decidere dove andare, ed io quel giorno ho optato per seguire a ritroso il corso del Cordevole. Cercavo storie di acque che da sempre scorrono lungo la profonda gola di Digonera, acque che sessant’anni fa, da quelle parti avrebbero potuto trovare un ostacolo lungo il loro naturale cammino. Saviner, la ripida salita dopo l’abitato e poi freccia a destra per imboccare quella strada che da sempre mi incute soggezione. Qui il nastro d’asfalto prende a salire quasi con violenza e poi, dopo quattro curve, va ad infilarsi nella severa galleria illuminata dalle lampade a mercurio. Appena uscito dal tunnel ho parcheggiato nella piazzola posta sul filo di quel baratro profondo centoventi metri. Guardavo i versanti ormai inselvatichiti della gola e immaginavo il fremere delle funi delle potenti gru che facevano volteggiare in aria le benne che scaricavano il calcestruzzo sui conci della diga, pensavo alla polvere di roccia frantumata e al frastuono prodotto dai compressori; immaginavo il cantiere mentre lassù le nuvole accarezzavano la cima mutilata del Col di Lana. Pochi minuti di sosta e poi via, con l’obiettivo di raggiungere la grande chiesa che guarda la valle. Un quarto d’ora più tardi, dopo aver risalito l’erta strada provinciale, ero finalmente giunto a Laste. Ho parcheggiato di fianco all’ufficio postale con l’insegna stinta e di fronte alla bella palazzina dei Vigili del Fuoco Volontari di Laste. Mentre ammiravo l’edificio perfettamente tirato a lucido ho pensato all’importanza di questi présidi posti in questi territori affascinanti e difficili dove il fuoco rappresenta forse il principale incubo. Ad agosto saranno quarant’anni esatti dal terribile incendio che incenerì il borgo di Moè di Laste; le fiamme si alzarono verso il cielo divorando case e tabià, come poi accadde in tempi più recenti a Piaia di San Tomaso e a Canazei di Colle Santa Lucia. Pensavo al sacro terrore del fuoco mentre camminavo in salita per raggiungere l’imponente chiesa dedicata a San Gottardo. Dal colle isolato dove sorge questo edificio di culto si può godere di una vista che spazia dall’infinito del cielo agli inferi della gola dove scorre il Cordevole. All’orizzonte c’era il Civetta avvolto dalle nuvole e laggiù, sul fondo della valle, la diga fantasma. L’ho guardato a lungo quello spettro di calcestruzzo, l’ho immaginata sbarrare la gola stretta e severa di Digonera. Le noti distintamente le sue spalle possenti unite alla roccia che sovrasta il Cordevole, e osservando con attenzione puoi intravedere fra la vegetazione gli inquietanti buchi neri degli scarichi di fondo e di superficie. C’era silenzio sul colle, il vento di fine aprile accarezzava l’erba nuova mentre immaginavo le acque scure del lago che non c’è. Sopracordevole e Digonera, e Rucavà e Collaz aldilà della valle, si sarebbero specchiati in quelle acque miscuglio di Cordevole Fiorentina e Codalonga. A fine novembre il lago si sarebbe tramutato in un silente blocco di ghiaccio e poi a primavera avrebbe preso il colore del disgelo. Poi ho alzato lo sguardo cercando quei borghi aggrappati ai pendii del Pore e del Col di Lana; Colcuc, Larzonei, Palla e Agai. Ho guardato quei prati che un tempo erano campi in pendenza, ho immaginato le gerle piene della terra scesa verso valle che, appena sciolta la neve, veniva riportata alla sommità del campo. Erano gambe e schiene forti e sacrifici e fatiche disumane, era l’essere un tutt’uno con questa terra difficile e avara. Poi ho chiuso gli occhi e ho cantato piano…
“…’sarei da cater pert se ‘n ston pa duc tán ‘bel saurì
‘ne da l’ Boè la bona not
el Zuìta da ‘l bondì,
n’te na gran corona intourn
de monc e bosc e prei
on fat su noste cèse, le màson e i nost tablèi…”
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