MONDO SEMPLICE
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Pochi giorni dopo la fine della scuola varcavo l’uscio di quel mondo semplice che si trovava a quota mille di fronte al Pelsa. Avevo lasciato la piccola città che ormai era entrata nell’estate e mi ero ritrovato lassù, dove le lunghe sere di metà giugno chiamavano la felpa, in compagnia di uomini e donne che portavano in viso i segni dei sacrifici e delle fatiche compiute durante la loro vita di montagna. Gente che era nata durante una guerra, che aveva combattuto in quella successiva e poi aveva lottato ancora per costruirsi una vita dignitosa lì, dove gli inverni erano lunghi e i campi erano in pendenza. Ora Belluno appariva così lontana, e i condomini, i semafori, le colonne d’auto, le persone eleganti che passeggiavano sul liston, erano divenuti ricordi che sfumavano giorno dopo giorno. Ora vivevo quella vita semplice solo all’apparenza; potevano sembrare facili quei gesti che sapevano di antico e che scandivano quelle lunghe giornate estive, e invece non lo erano affatto. Falciare un prato, legare i fasci di fieno, preparare il cibo per il maiale; perfino rastrellare e costruire correttamente una catasta di legna era difficile e necessitava di esperienza, di quel sapere tramandato da quelli che c’erano prima. Osservavo quei visi e quelle mani forti, ascoltavo quelle voci e imparavo ad essere onesto, a fare attenzione alle vipere, a leggere il cielo e conoscere le nuvole che avrebbero portato pioggia prima di sera. E poi imparavo che c’era sempre l’inverno all’orizzonte, e anche quando era luglio e trascorrevo i pomeriggi giocando a torso nudo, la stagione dei silenzi era sempre una presenza discreta. Erano i colpi secchi e decisi del “manarin” a ricordarmelo, era la “pila de legne” che cresceva settimana dopo settimana sotto le finestre della cucina. Un mondo semplice, che poteva dare l’impressione di offrire poco e che invece regalava tutto; non c’era la TV a colori con il telecomando, però c’era cibo genuino in abbondanza e la legna necessaria per stare bene al caldo durante i mesi invernali. E poi gli affetti, il Pelsa da scrutare con il binocolo e soprattutto la libertà; potevo dormire quando avevo sonno, mangiare quando avevo fame e poi saltare qualche muro a secco sempre un po’ più alto oppure inciampare cadendo fra le ortiche. Mentre vivevo quel tempo lento scandito dal maturare dei susini, imparavo che occorreva un minimo d’impegno per ottenere le cose; se desideravo un bagno caldo, prima dovevo accendere un fuoco nello scaldabagno a legna e poi governarlo con cura e dedizione, se a merenda volevo gustare uno squisito panino riempito con la marmellata di mirtilli, prima occorreva andare a raccoglierli nel bosco. E poi, come accadeva spesso, quando c’era il desiderio di assaporare l’ottima cioccolata al latte con il riso soffiato e le nocciole, bisognava attendere con la necessaria pazienza l’arrivo “de chel dal camion” che annunciava a colpi di clacson il suo approssimarsi alla frazione. E nel frattempo l’estate scorreva centellinando quel tempo lento apparentemente uguale e sempre diverso, consumato nell’attesa di semplici e preziosi attimi che sarebbero diventati ricordi mai perduti.
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