QUANDO SCRIVO
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Scrivo di montagne, di rocce e di cieli agordini, racconto di boschi torrenti e notti stellate d’inverno. E poi di strade abbandonate e case cantoniere chiuse in enigmatici silenzi, di larici cresciuti sugli strapiombi e faggi che colorano i boschi d’ottobre. Vento e neve, pioggia e sole; racconto brevi storie di vita che si intrecciano con lo scorrere della Storia. Ritrovo dettagli minimi, all’apparenza insignificanti, ricordo persone andate avanti ma rimaste nel cuore. Cerco di raccontare tutto questo perché questo è ciò che ho dentro; io “sono” quello che scrivo, e mentre scrivo ritrovo i luoghi e i volti, le voci e la neve, e mi piace pensare che chi legge riesca a vedere lo scintillio del ghiaccio che ornava la “brenta” che non c’è più. E poi che possa sentire il caldo di legna e il silenzio della montagna di sera, che riesca ad immaginare quel vivere lento, ricco di gesti semplici tramandati da generazioni che hanno vissuto gli inverni nell’intimità di quelle “stue” riscaldate dal “fornel” e da sentimenti veri. Quando scrivo ritorno di fronte al Pelsa dove, in quelle lunghe sere d’inverno, c’erano gelo stelle e silenzi, e poi c’era quel poco che era tutto. Ho vissuto un tempo in cui mi sono riempito di attimi semplici, di parole rimaste scolpite nella mia memoria. È successo che ho taciuto per quarant’anni; ho vissuto osservando tanto e parlando poco, e spesso quel poco mi sembrava già troppo. E stavo lì, volutamente un passo indietro, con l’umiltà propria di chi conosce i propri limiti. Guardavo il mondo correre sempre più in fretta e talvolta ho pure tentato di rimanere a ruota; e così correvo anch’io, ma per arrivare dove, mi chiedevo nel frattempo. Da bambino amavo la tranquillità dei fine settimana d’autunno a Cencenighe, i colori del Bosk dal Forn, il pungere del freddo di novembre e il bianco della “brosa” sull’asfalto della Strada Madre. E poi, durante quelle estati vissute a San Tomaso, mi perdevo nell’ammirare il muovere lento dei larici spinti dal vento del pomeriggio. Quelle lunghe giornate mi hanno insegnato la pazienza, le montagne mi hanno insegnato l’attendere, il saper cogliere i dettagli che annunciano il cambio delle stagioni o l’arrivo di un temporale. Mentre le luci stroboscopiche delle discoteche illuminavano visi in festa e i coni delle casse vibravano i colpi della musica techno, io mi riempivo di musica triste, di canzoni ormai fuori moda e fuori dal tempo. Raccoglievo e memorizzavo parole e rime di quei brani spesso malinconici che raccontavano la vita, tentavo di capire i meccanismi di quel narrare in musica. E poi nuovamente la montagna e ancora quello stare alla finestra ad osservare il mondo. Il lavoro, pochi amici e poi i silenzi e la serenità che il “mio” monte mi regala. Il capire con il tempo che ognuno ha il suo modo di vivere e di stare bene con se stesso; il perseguire il più possibile questo vivere un po’ ai margini riempiendomi nel frattempo di tutto ciò che le “Montagne Mee e la mè val” sanno offrire. Tante primavere ho visto nascere lassù, tante volte ho visto i larici svegliarsi dopo aver dormito per cinque mesi. E poi le estati diventare autunni e l’emozione della prima neve d’inverno. Un vivere così, fuori moda, lasciando che il mondo vada per la sua strada, senza quell’opprimente ed effimero desiderio di rincorrerlo. È successo che ho taciuto per quarant’anni, poi ho scritto; citando una frase del grande Augusto Daolio “… non scrivo per riempire un vuoto, ma per vuotare un pieno che è dentro di me e preme.
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