LA FERROVIA AGORDINA
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A quel tempo la Strada Madre offriva suggestioni che sapevano di profonda America, quella narrata da John Stejnbeck e Jack Kerouac, e poi da musicisti come Dylan e Springsteen. Quegli States della Route 66 e delle varie Highway che correvano lungo pianure polverose e disabitate, con le aree di servizio con le targhe appese ai muri e le insegne cigolanti mosse dal vento. La Strada Statale 203 Agordina, in fondo, non era da meno; c’erano le case cantoniere ormai stanche che fiere mostravano le loro progressive chilometriche dipinte a chiare lettere sulle pareti nord e sud e poi la monumentale centrale di La Stanga ed il villaggio fantasma di Valle Imperina. Storie di miniere e minatori e di quella potente epopea idroelettrica durante la quale vennero forate le lunghe gallerie che si inoltrano nel ventre delle montagne che si innalzano dal greto del Cordevole. E poi quel villaggio, posto alla frontiera fra l’Agordino e la Valbelluna, dove un tempo si cambiavano i cavalli, al quale la mia fantasia di bambino aveva aggiunto un saloon, una banca da rapinare, la prigione e un falegname intento a fabbricare casse da morto come nei migliori film Western. Fantasie di un bambino degli anni ’80, alimentate anche dalla leggenda, che poi leggenda non era affatto, di quella Ferrovia Agordina che per una trentina d’anni garantì il trasportò di uomini e pirite lungo la tratta Bribano-Agordo. Durante il nostro perenne peregrinare lungo la Strada Madre papà talvolta raccontava di questa ferrovia che a me appariva come un qualcosa di impossibile, eppure, aldilà del Cordevole lungo la gola dei Castei, c’erano le severe gallerie a testimoniare quanto raccontato. E allora cercavo altri segni che testimoniassero l’esistenza di quella strada ferrata e nel frattempo la fantasia ritornava a volare. Immaginavo la locomotiva avvolta dal vapore che usciva dagli sfiati davanti alle ruote e dal fumo nero del carbone, vedevo il fuochista dal viso annerito che con la pala gettava il carbone nella caldaia. E poi il rifornimento d’acqua, magari proprio alla fermata di La Muda e lo slittare delle ruote al momento della partenza. Fantasie presto stroncate dalle informazioni di mamma e papà, che su quel treno agordino c’erano saliti qualche volta quando erano bambini. Venni così a sapere che il treno era elettrico, quindi niente fumo e sbuffi di vapore, e ciò mi sembrava incredibile; mi stupisco ancora oggi al pensiero di un treno elettrico ad emissioni zero, alimentato a corrente continua prodotta da una centrale idroelettrica che utilizzava l’acqua del Cordevole. Nemmeno un grammo di Co2 emesso in atmosfera, niente polveri sottili e tizzoni di carbone che in altri luoghi provocavano incendi nei pressi dei binari. Una tratta ferroviaria complicata, inaugurata nel gennaio del 1925, munita di gallerie, ponti caselli e stazioni, opere che furono costruite in appena due anni e mezzo. Mamma raccontava che i vagoni avevano le panche di legno e che il treno viaggiava abbastanza lentamente, papà mi spiegava il tracciato che presentava soluzioni geniali indispensabili per superare gli importanti ostacoli che la natura proponeva. D’inverno, quando gli alberi a bordo strada erano spogli, potevo scorgere l’imponente ponte ad archi che permetteva al treno di attraversare il torrente Missiaga nei pressi di Ponte Alto alle porte di Agordo, e poi, all’uscita del viadotto, c’era l’ingresso della misteriosa galleria che sbucava a Polane. Poi tutto dritto fino alla stazione dove oggi sostano le corriere. Trent’anni di onorata carriera terminata alla metà degli anni ’50, una storia di binari che univano la montagna alla pianura, una storia di rotaie agordine sulle quali correvano i vagoni merci marchiati S.A.I.F e i sogni e le speranze di chi partiva a cercare fortuna al di fuori della propria valle.
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