LE DONNE DI MONTAGNA
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Le ricordo quelle donne di montagna che vivevano a mezza costa, rammento i loro volti e i loro sguardi che incrociavo quotidianamente mentre vivevo quel tempo lungo di un’altra estate passata ad ammirare il Pelsa. Erano donne nate negli anni della Grande Guerra, qualcuna addirittura durante il famigerato “an dela fam”, ovvero quel triste periodo successivo alla rotta di Caporetto. Padri e forse fratelli al fronte e le loro madri che non avevano avuto nemmeno il tempo di rimettersi dal parto in casa in quel tempo buio di fame paura e miseria. Era iniziata così la loro vita in quella terra dura di montagna dove gli inverni erano lunghi e i campi e gli animali garantivano la sopravvivenza. Al tempo dell’inizio della scuola erano già utili in casa, magari accudendo un fratello o una sorella arrivati nel frattempo e poi portando le capre o la vacca al pascolo. Bambine che a dodici anni erano già adulte nei gesti e nei lineamenti dei visi abbronzati dal sole che picchiava sui prati mentre erano intente a rastrellare il fieno di luglio. Le osservavo quelle donne durante le infinite vacanze estive vissute lassù dove il sole scavalca il Mont’Alt qualche minuto dopo le otto, e mi chiedevo se fossero state mai bambine, se pure loro avessero posseduto dei giochi con cui passare il tempo e quali sogni potessero avere avuto per il loro futuro. Erano donne venute al mondo durante un conflitto mondiale e che poi avevano vissuto gli anni migliori durante un’altra guerra. Nell’intervallo fra i due assurdi massacri erano cresciute in fretta, qualcuna era andata a “servì via par calche città” e poi era ritornata fra i monti, altre, invece, erano rimaste tenacemente aggrappate ai ripidi pendii che caratterizzavano il loro paese. Osservavo il loro passo lento ma sempre agile e sicuro, guardavo quelle mani allo stesso tempo forti e gentili che sapevano fare tutto. Possedevano mani in grado di ricamare un centrino e maneggiare una roncola, rammendare i calzini e mungere una vacca e far sibilare una falce. Avevano dovuto svolgere molti di quei lavori “da uomo” durante gli anni in cui i giovani mariti erano al fronte in Albania e qualcuno in Russia, e successivamente, in tempo di pace, all’estero a rovinarsi i polmoni in qualche miniera del Belgio o della Francia. Avevano dovuto mandare avanti la casa, allevare i figli e le bestie, coltivare i campi e fare la legna, e le loro schiene ora incurvate erano le testimoni di quelle loro storie di fatiche e sacrifici. Quelle donne di montagna le ricordo al tempo della mia infanzia; avevano i capelli grigi e d’estate indossavano scamiciati a fiori e ancora lavoravano su quei prati che lentamente si stavano tramutando in bosco. Ora che le vacche in stalla erano sempre meno loro erano nonne premurose che passavano i mesi estivi badando ai nipoti e dedicandosi con più calma a quei lavori che erano stati la loro vita. Le rammento a “spontizà scarpet” durante quei pomeriggi di temporale, le ricordo ad agosto a raccogliere i susini e poi i fagioli al tempo in cui l’estate lentamente iniziava a scemare. Era alla sera che vedevo quegli sguardi soddisfatti per un’altra giornata trascorsa senza “sta de bant”, era all’accendersi delle stelle che potevo ascoltarle mentre chiacchieravano sedute sulla cordonata della provinciale. Ricordi narrati a bassa voce, storie che raccontavano le loro vite dure e avventurose vissute lassù dove nulla è semplice e niente è regalato. Poi i dialoghi sfumavano lenti quando la luna iniziava il suo ennesimo cammino in quel tiepido cielo d’estate; di notte sarebbe stato il canto d’acqua della fontana ad accompagnare il meritato sonno di quelle donne di montagna che mai ho scordato.
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