LE MONTAGNE DI CENCENIGHE
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Quando arrivi a Cencenighe a notte inoltrata le senti incombere le montagne. Puoi scorgere appena i profili scuri, non puoi ammirare le rocce, i boschi, i canaloni e le cime, però ne percepisci chiaramente la presenza. Pare quasi di sentirle respirare in certe sere d’estate quando ti accolgono illuminate a festa dalla luna piena. Sembrano voler proteggere questo paese situato nel punto dove strade valli e venti si incrociano e dove le acque di due torrenti si uniscono in un matrimonio infinito. Le montagne di Cencenighe si innalzano dal fondovalle con scatto improvviso, quasi violento; sono montagne faticose, dure da camminare, che necessitano di un passo lento almeno all’inizio dell’ascesa. Non sono montagne famose, non possiedono l’eleganza del Civetta oppure la solenne maestosità del Pelmo. Non si innalzano oltre quella quota simbolica dei tremila metri, rimangono abbondantemente sotto, eppure, nonostante ciò, non hanno nulla da invidiare ai monti più blasonati e battuti dalla maggior parte degli escursionisti. Sono quattro le montagne di Cencenighe, e sono poste esattamente ai punti cardinali; ad indicare il nord è la cima più modesta, quella che mostra la grande cicatrice della frana che il 23 maggio del 1940 sbarrò la strada che sale in Val del Biois. Il Monte delle Anime si protende come la prua di una nave che sembra navigare fra le due principali vallate agordine. Essa le divide, fa da spartiacque al vento che talvolta sale da sud; appena 1100 metri di quota, sufficienti affinché la vista possa spaziare fino all’ampia conca di Agordo. Il Pelsa è l’est di Cencenighe, è la montagna che al mattino viene scavalcata dal sole un bel po’ di tempo dopo il nascere del giorno. Essa si innalza ripida in parte direttamente dal greto del Cordevole e la sua cima non appare ben marcata; la sommità, in realtà, è una lunga cresta erbosa che si snoda pressoché alla stessa altitudine sopra quel mondo affascinante e selvaggio delle “banche de Pelsa”. Il Pelsa è montagna all’apparenza severa che accoglie nel suo grembo le frazioni della “banda de là” e custodisce le storie preziose di quel vivere difficile lungo i ripidi costoni solcati dai canaloni lungo i quali scendono fragorose “levine”. Bolp e Ghisel sono due testimoni di un vivere che oggi pare impossibile ma che invece era realtà fino a circa sei decenni fa; essi sono memoria di com’era vivere in montagna in un tempo nemmeno troppo distante, e le pietre di quelle case oggi raccontano i sacrifici e le fatiche di chi c’era prima di noi. Sono le Pale di San Lucano a chiudere l’orizzonte sud, con le due cime gemelle che, dai primi di dicembre fino al 17 gennaio giorno del Patrono Sant’Antonio Abate, per circa un’ora sono di ostacolo al sole. Ogni giorno, dalle undici e un quarto fino al suonare del mezzogiorno della campana grande, una fredda ombra cala sulla piazza del paese; per oltre un mese va in scena una sorta di eclisse giornaliera che regala al centro di Cencenighe un primo precoce tramonto. Poi, quel sole affaticato va a lambire la cima principale del Mul per poi andare a spegnersi definitivamente dietro la Cima di Pape. La montagna intitolata a Papa Luciani è formata da rocce scure e “loppa” ed è lei che va a chiudere l’ovest di Cencenighe; guardandola dal paese si presenta appuntita e sulla vetta che conclude la lunga catena di cime selvagge è installata la grande Croce che veglia Canale d’Agordo. È la montagna del tramonto, quella che, come una sorta di sipario, va a nascondere l’ultimo sole ponendo così fine al giorno e a volte anche ai miei fine settimana agordini. Sono così, per me, le montagne di Cencenighe; monti che proteggono questo paese situato all’incrocio di acque e di strade e che rasserenano l’anima di chi le ama le cura e le racconta.
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