GLI UOMINI DI MONTAGNA
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La dura vita di montagna che avevano vissuto la potevi leggere nelle rughe che solcavano quei visi induriti dal tempo e dalle fatiche. I sacrifici erano narrati da quelle andature spesso affaticate, dalle mani rovinate e dai dolori che li facevano camminare sghembi e apparire vecchi a sessant’anni. Li ricordo bene gli uomini di montagna, quelli nati al tempo della Grande Guerra, poco più che sessantenni al tempo della mia infanzia. Venuti al mondo negli anni peggiori, quelli della fame e dei colpi di fucili e cannoni che, a pochi chilometri, mietevano vittime e squssavano il millenario silenzio delle montagne. Poi poche classi di scuola e per qualcuno un triste destino; “…la boca ‘ncora picola, la fam ormai la e granda, me pare ‘l ma mandà fora par Badia a sbatocià…”. Era questo l’amaro destino raccontato nello struggente canto scritto e musicato da Donato Manfroi e cantato dal Coro Monte Pelsa; erano piccoli uomini sui pascoli che badavano alle vacche, erano bambini carichi di fame e nostalgia. Poi i visi orgogliosi ritratti sulla foto dei coscritti, i sogni dei vent’anni e la mazzata di un nuovo conflitto mondiale questa volta da combattere. La Grecia, l’Albania, la Russia, la guerra civile e poi, per i più fortunati, il ritorno a casa. Appena il tempo di mettere sù qualche chilo e farsi togliere qualche scheggia di granata conficcata nella schiena e poi via di nuovo, a combattere un’altra guerra, quella contro la fame. Ora non c’era più da imbracciare il fucile e srotolare il nastro di munizioni che alimentava la mitraglia, non c’era più da tirare il filo che faceva tuonare il cannone; ora le armi erano il piccone e la cazzuola, il badile e la carriola, la lampada a carburo e quel martello pneumatico che rompeva i timpani e i nervi. Erano ancora fatiche pericoli e nostalgie, erano le lettere spedite a casa, la foto della moglie ed il contare i giorni che mancavano prima del sospirato ritorno al paese nei giorni in cui i larici erano d’oro e si portavano i fiori al cimitero. Era a marzo, da San Giuseppe che si presentava quell’ennesimo vivere duro; era una nuova partenza dal paese, la valigia e lo sferragliare di ruote sui binari, e poi il passaporto il cantiere o la miniera. Erano i quarti di vino per farsi forza e coraggio, i pranzi seduti sui mattoni, erano i sacchi di cemento da cinquanta chili e una lingua straniera tutta da imparare. Erano gli ascensori che portavano a mille metri sottoterra, erano i carrelli da riempire e la polvere di carbone e il grisù. Era il “mal del cemento” che piagava le mani e la “pusiera” che pietrificava i polmoni. Stagioni che sommate diventavano anni, partenze e ritorni e contributi persi, schiene rovinate e “becarie da Sant’Andrea” e poi, finalmente, un po’ di meritato riposo “su ‘n fornel” mentre fuori nevicava. Avanti così, fino al tempo della sospirata pensione, con gli acciacchi leniti dalla gioia del vedere crescere i nipoti e con la sottile malinconia ispirata dalla visione dei campi che si tramutavano in bosco. Era il tempo dell’autunno della vita, dei racconti di guerra, di qualche bicchiere al bar e del continuare a fare i lavori intorno a casa “parchè no se pol sta de bant”. Poi un giorno quel vivere di fatiche e sacrifici sarebbe terminato, la campana avrebbe suonato a rintocchi lenti e gli Alpini si sarebbero presentati all’entrata della chiesa con il labaro ed il cappello; era arrivato il tempo del riposo perpetuo vegliati dalle amate montagne.
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