FINE AGOSTO
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Era un’ultima domenica di agosto con le nuvole che al pomeriggio coprivano le cime. Dolci malinconie viaggiavano nell’aria, portate da un vento che sapeva di autunno precoce. Tutto era cambiato, ed era bastata una notte appena. Il sabato precedente era stata giornata calda e concitata, un tempo di traffico intenso e vociare di gente al mercato di Cencenighe; sembrava ancora piena estate, ma in realtà era un tempo effimero, un ultimo sussulto di un agosto ormai stanco. Poi durante la notte le nuvole erano arrivate in valle a coprire il quarto di luna crescente e l’alba si era presentata uggiosa e pesante. Dopo pranzo un giro lassù ai 1276 metri della frazione che guarda la parete nord del Civetta. C’erano auto parcheggiate in ogni dove e cantare d’acqua di ruscello diventato torrente nel luogo dove dimoravano i miei avi più ignoti, quelli che per ragioni di età e distanza non hanno incrociato la mia vita. Per me, loro sono nomi, donne e uomini che hanno vissuto la dura vita di montagna; alcuni sono i protagonisti di qualche storia che si perde nel tempo, altri sono visi immortalati sulle foto collocate su qualche severa lapide ormai consunta. Camminavo vivendo quel tempo incerto e lattiginoso e ascoltando di tanto in tanto il vociare della gente. Nel frattempo le montagne si erano nascoste dietro ad una coltre grigia di nuvole di quasi autunno e anche il cielo sembrava rassegnato al medesimo destino; di lì a poco non avrebbe più potuto mostrare il suo azzurro a quegli sguardi che, in quei momenti, stavano consumando il proprio personale addio ai monti. C’era fermento nell’aria, ma era un insieme malinconico di gesti stanchi e di occhi che cercavano per un’ultima volta le cime nascoste. Una giovane coppia osservava il cielo che si faceva di minuto in minuto sempre più severo, e nel frattempo le finestre della loro casa si chiudevano una dopo l’altra. Lui scrutava i dintorni di quella dimora rinnovata in riva al ruscello che si era fatto torrente, cercando forse di imprimersi ancora una volta nella propria memoria i dettagli e i suoni di quel luogo appartato. Lei, più pragmatica, sbarrava le imposte ed il suo sguardo appariva mesto, intristito dal dover lasciare quella casa e quella montagna. Nell’aria c’era sentore di tutto finito negli attimi in cui le nuvole erano calate sulle cime. Nuovi silenzi e una pioviggine leggera, lacrime dal cielo e malinconia negli sguardi delle persone che lasciavano la valle. Al tempo di quella pioggia sottile anche gli ultimi, quelli che avevano voluto vivere fino in fondo quel loro tempo di montagna, erano pronti a partire. Camminavo lentamente nei viottoli di quella frazione che ammira il Civetta, sentivo il chiudersi triste degli scuri delle seconde case, vedevo mariti riempire i bauli delle auto mentre le mogli raccattavano valigie e bambini. Erano giri di chiave e saluti e tuoni che crepitavano fra le cime del Sasso Bianco e del Piz Zorlet e poi auto che puntavano verso sud cariche di bagagli e ricordi. Tornavano a riempirsi le città e a svuotarsi le valli, iniziava a sfumare l’estate e a bussare l’autunno; e alle venti, nell’ombra ormai marcata della sera, la campana avrebbe suonato l’Ave Maria per chi sarebbe rimasto a vivere la propria vita lassù, dov’era iniziato quel tempo tranquillo d’agosto morente.
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