UNA LETTERA PER VOI
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Cari nonni, sono ormai trascorsi una trentina d’anni da quando le nostre strade si sono divise; voi siete andati a riposare nel camposanto che guarda il Civetta, io invece a quel tempo stavo percorrendo a tutta velocità la strada che mi avrebbe portato a diventare un uomo. Quando passo per Celat mi fermo sempre per un saluto; prima ammiro per un attimo la grande montagna, poi apro il cigolante cancello, scendo la scalinata e giro a destra. Eccovi al terzo piano del “condominio”, come lo chiamavate voi, uno accanto all’altra come sempre nella vita. Vi saluto, guardo le date che ricordano il giorno in cui è iniziato il vostro riposo perpetuo e poi ricordo i dettagli di quei giorni ormai lontani. Sento ancora sulla pelle quel vento bastardo di fine marzo e vivo quel pomeriggio limpido di fine ottobre con i boschi che sfogggiavano i loro colori più intensi. Poi incrocio i vostri sguardi un po’ malinconici e penso alle vostre vite cariche di fatiche, di tempi di guerra e sacrifici. Quando sono nato avevate entrambi sessant’anni e a conti fatti le nostre vite si sono incrociate per circa una decina di anni. Poco più di dieci anni è in fondo un tempo breve, quasi un battito d’ali, eppure è stato un decennio importante, ricco di vita e di valori. È stato un tempo semplice e prezioso in cui ho imparato come stare al mondo e immagazzinato i ricordi più cari. In quei ormai lontani anni ’80 ho avuto l’immensa fortuna di vivere un po’ della vostra vita vissuta di fronte al Pelsa; ho avuto l’opportunità di imparare la semplicità di quelle vite di montagna laboriose e faticose, ho potuto ascoltare quei passi notturni che si dirigevano verso la stalla. Ho fatto appena in tempo a vedere come si falciano i prati e come si batte la falce, ho visto come si munge una vacca e come si prepara il cibo al maiale. Ho potuto bere quel latte a metri zero, gustare l’uovo ancora caldo e conoscere la vostra onestà e dignità. A volte, quando passo a trovarvi nel cimitero che guarda il Civetta, il vento che lambisce le tombe sembra portare le vostre voci. Chiudo gli occhi e sento ancora il parlare in quel dialetto che è anche il mio dialetto e vi immagino sereni nel vostro riposare per sempre nel paese che vi ha visti nascere perché sapete che la vostra memoria è ben custodita. La casa, il tabià e quei prati che sono diventati bosco parlano di voi, raccontano le vostre vite e in ogni pietra, in ogni trave e pugno di terra c’è un po’ del vostro sudore. Nel tabià i vostri attrezzi sono ancora al loro posto; ci sono le falci e i rastrelli, i cunei per spaccare le pietre, le gerle e le corde che usavate per legare i fasci di fieno. Sembra ancora di sentire il fruscio del fieno spostato con la forca, sembra ancora di vedere i vostri gesti lenti e sapienti e le vostre sagome stanche. I nostri dialoghi silenziosi durano pochi minuti, un po’ di più se ho bisogno di qualche consiglio, e poi iniziamo il consueto rito dei saluti. Sono le stesse parole di un tempo, stavolta pronunciate in silenzio; ci sono ancora quei “fa ‘l valent” e quei “se vedon domenega che vien”, mentre il vento muove i fiori e le fiammelle dei lumini che illuminano la vostre notti.
“…ciao Noni, sion stat asieme domai pok pi de diese ani parchè la vita la vulest così, ma le chel che me a bastà par mè ‘mpenì de memorie da cenì polito da cont. Le stat bel, e le bel ve regordà e zercà de menà ‘n avant i vost sacrifici. Ai zercà de fa meio che ai podest, e son segur che siè content…”
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