IL CUORE DI NEVE
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Era il primo pomeriggio di un giorno gelido e grigio di fine anno, in casa la stufa era rovente e fuori il cielo sembrava promettere neve. Avevo pranzato osservando l’ombra che poco prima di mezzogiorno si era impadronita della piazza di Cencenighe; sono i giorni, quelli di dicembre, in cui al suonare della campana grande si vive una sorta di eclissi di sole. Sul paese scende improvvisa una penombra di quasi sera quando il sole va trovarsi dietro le due cime dello Spiz di Mezzodì e poi, verso mezzogiorno e mezzo, la luce riappare come una sorta di alba pomeridiana. Al ritorno del sole ho indossato l’abbigliamento pesante, caricato al massimo la stufa e poi sono partito; era forte il desiderio di nutrirmi d’inverno e storie, e per fare ciò mi ero dato il tempo del fuoco che si trasforma in brace. A Pradimezzo era ancora più inverno e il sole aveva già dato appuntamento per il tardo mattino successivo, e si era alzato anche un vento gelido che penetrava nelle ossa. Lungo la strada sterrata tracce di neve vecchia di un mese si alternavano a chiazze di ghiaia arida e ghiacciata. Tutto era spento in quel bosco avvinto all’inverno, solo gli abeti vestiti del loro immutabile verde cupo, sembravano insensibili a quel tempo freddo e silente. I larici, invece, mostravano le loro cortecce rugose e i rami spogli e fra i faggi nudi delle loro foglie che ora dormivano sotto la poca neve ghiacciata, si poteva ammirare nitidamente il paese adagiato fra i due torrenti stanchi. Poco più di venti minuti ed ecco i muri di quelle case che al mattino vedono nascere il sole sopra il Pelsa. Pochi centimetri di neve a ricoprire i tetti sfiniti e le travi piegate dal tempo e dagli inverni, poco lontano il sussurrare monotono del filo d’acqua che non c’era che in quei giorni di fine dicembre aveva creato una lucente e appuntita stalattite. I camini tacevano come pure i prati ricoperti da pochi centimetri di neve ghiacciata. Ora anche il sole aveva lasciato il borgo e la vecchia meridiana non segnava più alcuna ora. Era arrivato il tempo della penombra che avvolgeva gli alberi scheletriti, i muri cadenti e i prati imbiancati che una volta erano fertili campi. Osservavo la casa senza il tetto e vedevo formarsi la brina sulle piastrelle di quella che doveva essere la cucina e poi, guardando i resti del “larin”, li immaginavo seduti intorno ad asciugarsi i piedi bagnati e a raccontarsi l’inverno. Pareva di udire i ferri che rammendavano i calzini e il vociare allegro dei bambini, sembrava di sentire il gran caldo di legna che riscaldava anime e corpi. Pensavo ai silenzi di lassù e ai “diaolin” sulle dita, alle notti fredde con la neve che brillava alla luce della luna. Ora che il precoce imbrunire stava per scendere sulla valle pensavo al suono del latte che riempiva i “candoi”, al fiato delle vacche e alla neve che induriva al gelo della sera. Immaginavo le persone, i camini fumanti, il desiderio di un letto caldo per la notte; avrei voluto salutarli, parlare con loro, ma erano soltanto ombre senza voce in una fredda sera di fine anno. Il cielo iniziava a scurire e il fuoco nella mia stufa era ormai stanco, era giunto il tempo di lasciare quel profondo silenzio e fare ritorno a Cencenighe. Pochi passi in discesa, appena il tempo di raggiungere il primo tornante ed ecco la sorpresa che il villaggio silente ha voluto regalarmi. Sull’arida e gelida terra della strada un cuore di neve grande poco più di un palmo; un caso forse, uno scherzo della natura, oppure il saluto che quelle ombre mute avevano voluto rivolgermi. Loro sanno perché vado lassù, tanti sono stati i nostri dialoghi silenziosi. L’ho sfiorato quel prezioso cuore di neve, e l’ho trasformato in ricordo da ricordare per sempre. Era appena arrivato il buio quando sono rientrato a casa, e il fuoco era ormai stanco. Pochi minuti più tardi ardeva con vigore, riscaldando l’ennesima mia tranquilla sera agordina.
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