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INIZIO PRIMAVERA
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La prima domenica di aprile aveva il profumo del primo salame tolto da uno dei bastoni appesi nella cantina dalla porta azzurra. Il taglio netto e deciso dello spago e quel tepore gentile che riscaldava l’anima e i prati ormai liberi dalla neve, sancivano ufficialmente l’inizio di una nuova primavera. Era il tempo della Pasqua imminente e della vecchia zaresera vestita di bianco come una sposa, del canto potente del Rù da Ghisel ingrossato dall’acqua del disgelo e del timido risveglio dei larici che si apprestavano a vivere un’altra stagione dei fiori vissuta di fronte al Pelsa. Ora, uomini e natura si stavano lasciando alle spalle i rigori dell’inverno appena superato; c’era la dolcezza del sole che a mezzogiorno riscaldava i prati e i muri delle case, c’era il fuoco ormai quasi solo alla sera. Anche i nostri commiati domenicali dai nonni e dalla montagna si erano trasformati con l’arrivo della primavera. Non c’erano più buio e stelle al momento dei saluti, e nemmeno le preoccupazioni per le strade ghiacciate e per il traffico di rientro degli sciatori; ora ci si salutava con più calma nel tepore della casa dagli scuri celesti dove il fornel era ormai a riposo da un paio di settimane. La parete del Pelsa ancora illuminata dal sole del pomeriggio, le cataste di legna ridotte nelle loro dimensioni, il profumo dei salami ora induriti e ricoperti dalla muffa grigia. Si lasciava così San Tomaso che in quei giorni iniziava a vivere una nuova stagione, con le solite borse in mano e con un salame da assaggiare al termine della cena. Ora non era più tempo di fari che bucavano l’oscurità lungo la Strada Madre come accadeva nei mesi freddi, si viaggiava assieme allo sfumare lento del giorno che ci avrebbe accompagnato fino al nostro approdare nella piccola città. La Ritmo correva veloce lungo la 203 deserta, lambendo i prati di Candaten colorati di giallo dei tarassaci fino a trovare il verde nuovo dei tigli di via Feltre. Aprile aveva portato in dote un tempo diverso, ora c’era improvvisamente un’ora in più di luce che invogliava a rimanere fuori per godere di quel tepore che donava il primo vero mese di primavera. Due giri di chiave per aprire la porta di casa, l’appoggiare le borse sul tavolo della cucina e il recuperare il pallone incastrato sotto il termosifone del corridoio. E poi fuori in cortile, a vivere quegli ultimi scampoli di domenica d’inizio primavera. I due grossi pini a fare da pali della porta, il frastuono del cancello ad ogni tiro sbagliato, i tuffi sul ghiaino misto ad erba e le prime finestre aperte all’ora di cena. Meno di mezz’ora, giusto il tempo di ricevere i primi improperi di stagione da parte di quegli anziani a nemmeno sessant’anni che amavano sbraitare dal balcone, ed era pronta la cena. La minestra fumante mentre fuori scendeva una dolce sera d’aprile sulla Valbelluna, il telegiornale guardato distrattamente nella TV in bianco e nero e poi finalmente il momento tanto atteso del taglio della prima fetta del salame. La mano abile di papà che maneggiava il coltello quello buono, il bianco del lardo che risaltava sul rosso scuro, il budello che si staccava senza sforzo. La fetta di pane e quel sapore che sapeva di fatto in casa, la nuova primavera che entrava dalla porta socchiusa del terrazzo. La stagione dei fiori era racchiusa in quel andare lento incontro ad una gentile sera d’aprile, e stava pure dentro a quel rito annuale, che di lì a pochi anni sarebbe scomparso, dello snizà il primo salame. Poi la notte e quella impressione che l’estate, in fondo, non era più un miraggio così lontano.
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