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SANT’ANDREA
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Alla fine di novembre al paese era già inverno. I boschi del Pelsa quasi dormienti, spogli e grigi, i campi e i prati ricoperti dalla prima neve ormai ghiacciata e dura come l’acciaio. Tempo d’autunno sfumato, con i camini che fumavano da mattina a sera e il sole che scavalcava la grande montagna poco prima delle dieci. Era tepore stanco di sole ormai remissivo, apatico e rassegnato, capace di sgelare a fatica l’acqua della fontana quando si udivano in lontananza i dodici rintocchi della campana. A Sant’Andrea era il tempo dei giorni più brevi dell’anno e dello spegnersi della natura; moriva l’autunno e si accendeva un febbrile fervore degli uomini di montagna che erano ormai prossimi ad iniziare la “becaria”, ovvero la macellazione del maiale allevato da loro stessi; mentre nasceva l’inverno il suino passava a miglior vita e accadeva al mattino presto, quando ancora la neve ghiacciata crepitava sotto le scarpe pesanti e ben prima che il sole si presentasse ad illuminare la valle. Quando Ghisel era ancora avvolto dalla luce blu dell’alba, tutto era compiuto. Il norcino aveva terminato il suo compito ed ora che i potenti grugniti erano sfumati iniziava il grande lavoro che avrebbe coinvolto l’intera famiglia. Ora ognuno aveva il suo compito preciso da svolgere e si rinnovava ancora una volta quell’insieme di gesti tramandati di generazione in generazione. Qualcuno manovrava con perizia gli affilati coltelli taglienti come rasoi, altre mani provvedevano al lavaggio dei budelli, altre ancora facevano girare la manovella della “machina da la carne”. C’era fervore in casa, profumo di spezie e calore di legna buona e qualche bicchiere di vino nei momenti di pausa mentre fuori l’inverno calava sulla valle insieme alle sere sempre più precoci. Era questo il tempo dei larici spogliati, delle bilance che pesavano il sale e di quelle mani che sapevano fare tutto che ora legavano i salami con consumata abilità. Erano mani che nel corso dell’anno avevano accudito bambini e maneggiato badili falci e rastrelli, che avevano rammendato vestiti e innalzato muri e tramezze. Mani che avevano lavorato duro nei boschi per preparare la legna per l’inverno e che si erano piagate lavando i panni nelle fontane, mani che avevano spaccato pietre e cucito “scarpet”. Ora, in quel tempo profumato di neve e spezie, quelle mani forti lavoravano per garantire il cibo necessario alla famiglia e quello era l’ultimo lavoro importante dell’anno che stava per terminare. Giorni faticosi di sole stanco e sveglie precoci, di camere fredde e lampadine fioche che illuminavano il mucchio di carne stipata sul grande tavolo. Erano braccia indolezite dall’ impastare e dita segnate dallo spago che legava le “luganeghe”, era il freddo che di notte ghiacciava strade e fontane. Tre, quattro giorni di lavoro da mattina a sera e poi finalmente quei sudati salami pendevano dai bastoni ed era il momento desiderato di lasciarsi andare alla doverosa festa. Ora, per quegli uomini di montagna, era finalmente tempo di un po’ di riposo mentre attendevano il Natale e i nuovi freddi silenzi dell’inverno appena nato.
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