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GIORNI D’INVERNO
AUDIO
Che cosa poteva esserci di così affascinante in quel vivere scarno ed essenziale di montagna; come poteva essere che ad un bambino di quasi città potessero piacere quei profondi silenzi delle sere di quasi inverno vissute di fronte al Pelsa. Sì, c’erano gli affetti lassù, c’erano le storie di fatiche e sacrifici, una casa e un tabià tirati sù a mano, c’era il campo che riposava sotto la prima neve e le cataste di legna coperte dai teli di nylon. Ma non c’era solamente tutto ciò, c’era anche qualcosa di immateriale, che non si poteva toccare con le mani, un qualcosa che accarezzava l’anima e rendeva sereni durante quei tramonti d’inizio dicembre. Mentre la luce del giorno scemava e il freddo della sera iniziava a mordere, l’animo diventava limpido come quel cielo stellato nel quale la luna passeggiava tranquilla sfiorando le cime cariche di neve nuova. In quegli attimi non vi era alcun desiderio di essere altrove; lì volevi essere, ad ascoltare il canto dell’acqua della fontana, a vivere un’altra notte in compagnia del ticchettio dell’orologio a pendolo e del calore del fornel che pian piano andava sfumando. Volevi essere lì, ad ascoltare quel muovere dei cerchi della cucina economica mentre fuori era ancora buio solenne, a bere quell’uovo ancora caldo e quel mezzo litro di latte di vacca appena munto, e a ritrovarti al mattino sotto ad una coperta in più. Erano i giorni più brevi dell’anno, quelli che si trascinavano lentamente verso il Natale ormai vicino e l’arrivo delle sere precoci era un evento che mi coglieva sempre di sorpresa. Perso nei miei giochi in mezzo alla prima neve di Colzaresè non mi accorgevo del finire del giorno. Di colpo spariva la luce di quel pallido sole di un fine autunno che era già inverno e il freddo aumentava di minuto in minuto, oltrepassando il maglione di lana, la dolcevita e la calzamaglia. La neve iniziava a ghiacciare mentre la parete del Pelsa entrava nel regno delle ombre. Le dita intirizzite chiudevano la giacca a vento nera mentre i camini iniziavano a fumare decisi e le fioche lampadine iniziavano ad illuminare le finestre delle case vicine, abitate da persone che parlavano poco e cenavano presto. Erano momenti pregni di una dolce malinconia; fissavo la luce della casa di Colàz dall’altra parte della valle e ascoltavo il silenzio di quegli attimi poco prima di entrare in casa. Mi accoglievano luci stanche di lampadine da 30 watt, profumo di minestra e qualche voce proveniente dalla TV in bianco e nero. Era ormai buio, e i vetri della finestra della cucina riflettevano occhi che cercavano un segno nella notte appena nata. Scrutavo l’oscurità e pensavo alla piccola città che mi appariva infinitamente lontana. In quel freddo buio apparivano i condomini le auto e i semafori, la mia casa la mia famiglia e i miei giochi. Poi quei dolci pensieri svanivano lasciando il posto al tepore del fornel. C’erano attimi di velata malinconia in quelle corte giornate di inizio inverno, ma erano attimi brevi: imparavo la vita e si incarnava nell’anima la montagna con i suoi silenzi che oggi cerco e trovo. Il resto erano giochi nella neve e notti sul fornel, accompagnato dal perenne ticchettio della pendola e dal ronzio intermittente del congelatore situato in cantina. Ricordi ormai lontani, che riaffiorano ogni anno nelle fredde sere di quasi Natale, attimi vissuti, che le montagne, ogni volta che ritorno al paese, mi fanno rivivere. Ritornano visi e voci e inverni lontani, ritornano i ricordi che abitano nel cuore.
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