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TEMPO D’INVERNO
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Gennaio era un mese duro, anche per quella gente di montagna che di lunghi inverni ne aveva vissuti tanti. Sei giorni ancora di festività natalizie, poi la Befana avrebbe riempito le calze di semplici doni e poi sarebbe ripartita, portandosi via il clima di festa e pure i nipoti, che avrebbero lasciato il paese per ritornare alla loro vita di città. Lassù, nella frazione a mezzacosta, sarebbero rimasti solamente i freddi silenzi del lunedì dell’anno a fare compagnia ai pochi anziani che vivevano la loro semplice vita di fronte al Pelsa. Ora avevano toccato il punto più profondo dell’inverno, e non era solamente il calendario a rammentarlo, erano pure le cataste di legna che si riducevano di giorno in giorno e poi quel gelo delle notti limpide, quelle con infinite stelle nel cielo. Gennaio era così, se erano nuvole grigie che nascondevano le montagne, era quasi sicuramente neve, se al contrario era cielo puro, era freddo che bruciava la pelle e i polmoni. Un tempo lento da vivere, un tempo che sembrava infinito e una settimana pareva un anno, con quei giorni stanchi consumati in casa riempiendo di legna la cucina economica e spalando la neve quando decideva di nevicare. Di quei tempi ormai lontani di quando ero bambino, ricordo i prati arresi all’inverno e la pazienza di chi, lassù, trascorreva in silenzio quelle lunghe ore di gennaio. Rammento le domeniche umide e uggiose, grigie come la Ritmo che appena dopo pranzo partiva da Belluno e a volte incontrava la prima neve lì, dove la valle si stringeva e la Valbelluna diventava Agordino. Rivedo le fontane ghiacciate, il ghiaino sparso sull’asfalto della Provinciale di San Tomaso, il cappello grigio di papà. E poi i cieli limpidi di certe sere che avevano dentro il profumo dei salami appesi in cantina, la lampadina da 30 watt con la sua luce giallina e stanca, il ronzio monotono del grande congelatore da poco riempito con la carne della “becaria”. Ritrovo la porta azzurra della cantina e le epiche stellate classiche delle lunghe e gelide notti di gennaio; quante stelle sopra la valle, ognuna con la propria luce ed il proprio posto nel cielo, veniva quasi voglia di contarle. Ricordo il caldo potente del fornel, i dormiveglia post giochi sulla neve, le parole in dialetto che in quei momenti erano echi lontani. E poi il giaccone di papà, la sua pila di ferro, il sacchetto di plastica con dentro le catene da neve che formavano un groviglio inestricabile che lui riusciva a domare in pochi minuti. Ricordi di pali di legno rossi e blu posizionati a bordo strada e cumuli di neve sporca ammucchiata alla base del muro del sagrato della chiesa di Cencenighe. Era così, per me, quel tempo rallentato del profondo inverno di montagna, aveva dentro neve e stelle, cieli limpidi e cieli assenti, nuvole grigie e calore di legna di larice e faggio. Poi, quel tempo di maglioni di lana e dolcevite e calzamaglie sintetiche, si trascinava lentamente incontro a febbraio; dopo i severi giorni della merla, una nuova appena accennata dolcezza, un timido alito di più lieve inverno, si sarebbe posato sulla valle e sui visi di chi, la domenica, mi avrebbe aspettato ancora una volta lassù.
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