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SUL CAMPANILE
AUDIO
Nel pomeriggio di un limpido e freddo giorno d’inverno sono salito sul campanile della chiesa di Cencenighe. Mancavano pochi minuti alle tre quando sono uscito dalla botola che si apre nel pavimento della cella campanaria. Proprio come accadde circa trentacinque anni fa quando, in un tranquillo pomeriggio d’estate, fu Don Costantino ad accompagnare fin lassù quel bambino curioso che, quasi ogni giorno, attendeva la suonata della campana grande che annunciava il mezzogiorno. Era stato emozionante uscire dalla botola situata proprio sotto la seconda campana, quella che annunciava la Messa della sera. Di quel pomeriggio ormai lontano ricordo la vista dei tetti delle case adiacenti la chiesa, e poi le due campane maggiori che allora mi erano sembrate enormi. Ero rimasto a bocca aperta ammirando i fregi e le scritte riportate sul bronzo, e avevo faticato parecchio tentando di muovere il batocio per far risuonare almeno un ritocco. Fu la mano del Parroco ad aiutare la mia ad accostare il battaglio per produrre quella nota di Fa che da sempre accompagna i miei giorni agordini. Poi tanto tempo è passato da quel giorno d’estate, fino a quel pomeriggio d’inverno in cui mi sono ritrovato nuovamente alla base del campanile. L’emozione era ancora intatta al momento dell’entrata nel vano dove un tempo pendevano le corde delle campane e dove oggi si trovano i moderni quadri elettrici. Poi finalmente l’imboccare la lunga e stretta scala che conduce alla cella campanaria; all’interno del campanile si respira un’atmosfera quasi medievale, pare di salire una torre merlata di un qualche castello o abbazia. La scala produce suoni che sanno di antico e poca luce penetra dalle minuscole finestrelle rettangolari situate sul lato est e le lampade elettriche aiutano la salita fra quelle spesse mura di pietra. Al terzo pianerottolo, sulla sinistra, ecco aprirsi a mezza altezza la severa porticina della misteriosa soffitta della chiesa. Sarebbe arduo entrarci, occorrerebbe infilarsi strisciando in quell’angusta apertura, e poi chissà; si narra di un mondo misterioso che si apre al di sopra della volta della chiesa dedicata a Sant’Antonio Abate. Ancora una serie di pianerottoli e poi finalmente lo sbucare lassù, ancora una volta sotto alla seconda campana, quella dal suono che mi ricorda certe sere d’autunno. Una nota di Sol che mi riporta il calore di legna e lo scintillare della brina di fine ottobre che, all’ora in cui suonava la campana, iniziava a ricoprire il sagrato. Tutto mi è apparso più piccolo lassù dove le quattro aperture ad arco permettono una visuale inedita sul paese e dove occorre un minimo di attenzione nel muoversi. Alle quindici in punto è iniziata la suonata a festa alla massima potenza e poi l’allegro Campanot eseguito dai giovani che mantengono viva questa antica tradizione. Cinque campane hanno suonato insieme per celebrare Sant’Antone, ed era indispensabile tapparsi le orecchie. Seduto su un cordolo in pietra, pensavo ai racconti di papà, di quando le campane venivano suonate a mano e quello di “campanaro” era un ruolo molto ambito. Immaginavo quei gruppi di ragazzi che anche in pieno inverno erano immancabilmente lassù a tirare con forza le corde di quelle campane che annunciavano Messe, funerali, matrimoni e processioni varie. Immaginavo quella fredda sera d’inizio primavera del 1950, quando la Madonna Pellegrina fece il suo ingresso in paese dal lato nord e quei ragazzini erano lassù, infreddoliti e pronti alla suonata delle grandi occasioni. Poi all’inizio del tramonto, negli attimi in cui la luna è spuntata sopra il Pelsa, siamo scesi dal campanile; lassù sono rimaste le campane, a scandire all’infinito il tempo e la storia del paese situato all’incrocio delle valli e dei venti.
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