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GENA ALTA
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La Valle del Mis era deserta in quella ultima e troppo calda mattina di un febbraio che contava ventinove giorni. Il cielo era sereno e un forte e tiepido vento carico di primavera increspava le fredde e scure acque del lago. Il bar chiuso, nessuna auto parcheggiata nel piazzale antistante la chiesa di San Romedio e lassù in alto, aggrappato alla montagna, il borgo silente che guarda la valle. Tre chilometri di strada che sale verticale lungo il ripido versante, una serie di tornanti stretti, una fontana e poi il borgo dov’ero approdato per la prima volta vent’anni prima. Allora avevo incontrato la malinconia dell’abbandono e silenzi che facevano male, questa volta, invece, i segni tangibili di un nuovo vivere quella montagna severa e avara di tutto. Forse erano le radici che avevano chiamato, forse qualcuno desiderava ogni tanto fuggire dalla frenesia del mondo che, al di fuori della valle, proponeva la consueta caotica quotidianità. Molti tetti erano nuovi, i prati ben curati e la staccionata dove mi ero appoggiato ad ammirare la valle era stata rinnovata. Gli alberi da frutto erano pronti a vivere la primavera ormai imminente e laggiù, nel mondo di sotto, il lago si mostrava in quasi tutta la sua lunghezza. Ascoltavo il vento tiepido che a tratti soffiava con forza e pensavo alle vite vissute su questo versante. Erano rimasti aggrappati a questa montagna selvaggia nonostante l’avarizia di questo ambiente severo, e avevano pure avuto la sfortuna di vedere transitare la guerra in questo luogo appartato. C’erano state delle vittime, le fiamme si erano levate alte nel cielo ed erano rimaste macerie fumanti; poi avevano ricostruito tutto. Qualche anno di tranquillità e un’altra battaglia alle porte, questa volta da combattere senz’armi. Il progresso stava lì di fronte a loro dove la valle inizia a restringersi, e forse sarebbe stato impossibile fermarne l’avanzata. Alla fine degli anni ‘50 un fragore di mine, il rombo continuo dei camion e il cigolare delle gru ruppe il secolare silenzio di questi luoghi. La diga di Santa Giuliana venne eretta in fretta e nel 1962, con l’innalzarsi delle acque del lago, venne decretato il fine vita in questa valle sacrificata in nome del progresso che, in quegli anni di boom economico, correva veloce. Guardavo quelle acque, che d’estate sono attrazione per le tante persone che giungono fin qui a cercare il fresco, e che per loro, invece, furono maledizione. Li immaginavo mentre assistevano alla sommersione dei campi, della vecchia strada e degli edifici di Gena Bassa, la località in cui erano ubicati i servizi che li aveva resi autosufficienti. Per loro, in quei mesi, arrivò il tempo amaro del dover lasciare le proprie case e la propria terra, e poi, pochi anni più tardi, ci pensò l’alluvione del 4 novembre del 1966 a rendere ancora più pesante quel silenzio che avvolse la valle per interi decenni. Trambusto di ghiaia e massi trasportati dalle furibonde acque del Mis, e poi l’oblio; chissà se i turisti che collocano i loro asciugamani sulle ghiaie in coda al lago, sanno che lì, sotto ai loro piedi, giace un mondo sommerso che, fino a qualche anno fa, a volte riappariva seppure in minima parte quando il bacino era al minimo livello. I muri a secco della vecchia strada e l’arcata del ponte erano gli ultimi testimoni di quell’angolo di mondo inghiottito dalle acque del Mis. Un ultimo sguardo alla valle e a quelle case rinnovate che attendevano una nuova primavera, un pensiero per chi, lassù, sessant’anni fa ha lasciato un gran pezzo di cuore all’ombra delle cime dei Monti del Sole.
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