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LA SOLITUDINE DELLA CIMA
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Un anonimo giorno, di un secco inizio marzo avaro di sole e ricco di tinte grigie che coprivano il cielo e intristivano l’anima. Una montagna da salire come accaduto tante altre volte in passato, camminando da solo, come poche altre volte, accompagnato dall’atmosfera malinconica propria di quel tempo indecifrabile che sempre offre il mese volubile. Era erba secca, addormentata e scura, quella che trovai appena imboccato il sentiero che conduce sulla vetta del monte Serva. Terra arida, prati asciutti che attendevano la prima pioggia di una primavera che ancora appariva infinitamente lontana, e lassù, a circa metà montagna, la neve. Il passo lento, il vento freddo che soffiava a raffiche, l’immobilità di un tempo sospeso fra due stagioni, una incapace di nascere e l’altra di morire. Il silenzio, l’erba ghiacciata e poi una sorta di perentoria riga tirata con precisione sul pendio del monte. Eccolo l’inverno, ecco la neve che tutto ricopre. Dapprima crostosa e tenace, invecchiata e rugosa, poi compatta e lucida, lavorata da gelo e disgelo. Un centinaio di metri di dislivello e poi la casera silente. Niente richiami del pastore che d’estate governa le greggi, niente belare allegro delle pecore che vagano negli immensi prati. Niente ragliare di asini e vociare di escursionisti, solamente il silenzio di cui è capace la montagna. Un’ora circa per approdare in vetta, procedendo lentamente e a volte battendo i piedi per grandinare quella neve levigata e dura come il marmo. Non c’era nulla di eroico in tutto ciò, niente lotta con l’alpe, niente “montagna assassina”che ti fa salire perché lo vuole lei; che poi le montagne non sono mai assassine, sono montagne e basta. Ad accogliermi lassù dove termina il monte e si apre l’austera visione dei dirupati versanti nord, una Croce scarna, essenziale, severa come dovrebbero essere tutte le Croci. In cima solo qualche raffica di vento, le spioventi cornici di neve, una Croce e tanta solitudine, laggiù, nel mondo di sotto, la piccola città intenta a vivere una giornata come tante. Il cielo immutabilmente grigio, la Schiara muta come una sfinge incrostata di neve, al centro della Valbelluna il pennacchio di fumo bianco della cartiera di Santa Giustina. E poi ad est il Nevegal con le sue tre lingue di neve stanca e all’orizzonte la quasi impercettibile riga che segna il confine fra la terra e il mare. Una mezz’ora trascorsa accanto alla Croce vivendo appieno la solitudine della cima, scattando qualche foto e a volte parlando da solo per farmi compagnia mentre intorno regnava l’inverno. In quei momenti, le dita arrossate raccontavano di quella stagione dei silenzi che a quota 2133 non accennava a sfumare. Era ancora il tempo del gelo e di quel vento bastardo di marzo che mi aveva tenuto compagnia per tutte quelle ore, era il tempo di lasciare la cima e iniziare la discesa. Ad ogni passo guadagnavo calore, ad ogni passo guadagnavo uno spicchio di quasi primavera. Un’ora e mezza per ritornare alla normalità di ogni giorno, lasciando lassù l’inverno con il suo vento d’inizio marzo che accarezzava la neve.
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