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L’OROLOGIO A PENDOLO
AUDIO
Domenica di fine inverno, di pioggia battente che a mezzogiorno si trasforma in neve. Auto frettolose che scendono a grappoli dalla Val del Biois e poi lunghi silenzi; una domenica da divano, da televisione guardata distrattamente e da fuoco da curare. Sentore di momenti già vissuti, attimi scanditi dall’infinito ticchettio dell’orologio a pendolo che, con il suo suonare malinconico, annuncia le ore e le mezze ore alla terza generazione di persone che una volta a settimana carica la sua molla. Da trent’anni la pendola scandisce il tempo vissuto accanto al Biois, ma non è stato sempre così; per alcuni decenni l’orologio ha battuto le ore nella casa situata a mezza costa di fronte al Pelsa. L’avevano comperato i nonni tanti anni fa, ed era stato un acquisto ponderato, uno di quelli importanti, che era stato necessario risparmiare per poterlo vedere appeso sulla parete rivolta ad est della stua. Avevano scelto un modello essenziale, di legno scuro, senza fronzoli, dall’aspetto quasi severo, e l’avevano collocato proprio di fronte al fornel, da dove, durante i lunghi pomeriggi d’inverno, si poteva seguire lo scorrere di quel tempo lento. Erano anni in cui gli orologi erano ancora appesi ai gilet degli uomini benestanti, più rari e da tenere da conto, invece, erano quelli legati al polso delle persone normali. Per alcuni c’era solamente l’orologio del campanile del paese a segnare quel tempo di sacrifici e fatiche. Da quel giorno lontano, la pendola ha svolto il suo lavoro in modo impeccabile, scandendo vite diverse, tempi anonimi e tempi importanti. Era quell’orologio dal suono serio ad indicare il tempo della mungitura della vacca o della partenza per la Svizzera, ad esempio, e poi il tempo dei frugali pranzi e delle precoci cene. Le ricordo ancora quelle lunghe e fredde notti di fine dicembre, quando il suo ticchettio perenne era l’unico suono presente in quel perfetto silenzio di neve. Quell’infinito tic-tac lo potevi udire anche dalla stanza dai muri rosa collocata sopra la stua e poi, ad intervalli regolari, pure quei metallici e malinconici “sdeng” che annunciavano l’arrivo di un’altra ora notturna. A volte i rintocchi perdevano vigore, rallentavano la cadenza e il volume si presentava più flebile, e allora quello era il momento di prendersi cura dell’orologio. Era necessario rinvigorire la sua molla per ridargli la forza necessaria per continuare a scandire quel tempo che lassù, di fronte al Pelsa, sembrava scorrere su di un’altra scala di misura. Ecco allora che mani forti diventavano delicate nel gesto di aprire la porta con il sottile vetro, e poi ecco l’impugnare l’apposita chiavetta da ruotare con attenzione fino al momento in cui, quel girare in senso orario, diveniva più stentato; ora la pendola era nuovamente pronta a scandire con precisione il tempo di quegli infiniti e caldi giorni d’estate oppure di quei volubili giorni d’inizio di un’altra stentata e piovosa primavera. Sembrava dovesse essere perpetuo lo scorrere di quelle vite, e invece giunse ineluttabile il momento del silenzio e di quel tempo scandito che nei primi anni ‘90 non serviva più a nessuno. Così un giorno, il vecchio orologio venne trasferito ai piedi del Pelsa dove avrebbe continuato ad indicare un tempo nuovo e ad evocare, con il suo suonare malinconico, quegli affetti che da tanti anni sono diventati ricordi.
“…cande che lughe a Zenzenighe la prima roba che faze le cargà le doi suste, e dopo scolte el so bate che me mena indrio a chi ani biei, cande che ereane ‘ncora tuti e via par Colaz l’era ‘ncora i prai…”
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