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L’ANIMA DI APRILE
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Quell’anno, dopo un lungo e anonimo inverno, era stato aprile a portare il primo vero accenno di primavera. Era iniziato con il bel tempo ma quasi subito aveva cambiato idea. Si era divertito ad illudere addirittura con qualche sprazzo d’estate e poi aveva deciso di riportare uomini e natura nell’autunno, e un pò anche nell’inverno. Fra i rami di quel vecchio ciliegio di montagna spirava un vento freddo, pesanti nuvole avvolgevano le creste del Pelsa e nei giorni successivi arrivò ancora altra neve. Nella frazione dove viveva il vecchio ciliegio tutto taceva. L’illusione estiva sembrava già un ricordo mentre qualche camino iniziava a fumare già a metà pomeriggio. Una leggera malinconia si posava sulle case, sui fienili e sull’erba che aveva iniziato a crescere. Aprile era sempre così, mese dalle mille anime diverse, capace di essere giugno e febbraio, di mutare d’umore nel giro di poche ore. Gentile e spietato, capace di arroventare la terra appena sveglia e poi di ricoprirla con una bianca, umida e pesante, coperta di neve che durava un giorno appena. In quei momenti, agli uomini non rimaneva altro da fare che osservare il mondo da dietro una finestra; ruote di auto rompevano i rivoli d’acqua che scendevano lungo la strada e montagne assenti, nascoste da una coltre impenetrabile di nubi. Dai tetti lucidati dalla pioggia svettavano camini che fumavano pigri mentre le ore scorrevano lente scandite dai rintocchi delle campane. Osservavano quel cielo inquieto, e quando si apriva uno squarcio fra le nubi guardavano la neve sulle cime e il “pisandol” delle Pale, e l’estate, in quei momenti di tempo apparentemente sospeso, appariva infinitamente lontana. Il volubile e bizzarro aprile era quasi sempre il mese della Pasqua, con quella settimana severa che mostrava chiese spoglie e proponeva i silenzi delle campane mute che poi sfogavano la loro gioia alla mezzanotte del sabato santo. Al tempo di quei giorni pasquali sulle cime era ancora inverno; erano i giorni della neve in bilico sopra alte pareti di roccia, dei ripidi canaloni pronti a ricevere quella neve che di lì a poco sarebbe scesa con irruenza lungo gli impervi budelli fino a terminare la sua corsa nelle fredde acque dei torrenti. Sarebbe accaduto nei giorni fra San Marco e il primo maggio, al tempo di quel detto popolare che ogni anno rinnovava la sua verità; voia o no voia a San Marco la foia. Larici e faggi avrebbero sfoggiato il loro abito verde nuovo di zecca e durante un pomeriggio di sole, la valle sarebbe stata scossa dal fragore delle ultime valanghe e poi la neve rimasta lassù avrebbe iniziato a sciogliersi, andando ad ingrossare i torrenti che avrebbero cantato a voce piena per qualche settimana. Era così aprile, mese di piogge sottili e nevicate tardive e di sole che avvicinava l’estate; era il mese degli ultimi fuochi nelle stufe e della imponente “levina della fava” che, al tempo del suo precipitare a valle, sanciva l’inizio ufficiale della semina dei campi e degli orti e di un’altra nuova primavera di montagna.
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