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STORIE DI FINE PRIMAVERA
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Quel tempo cittadino di fine maggio era carico di un fermento nuovo. In quei giorni in cui la primavera iniziava a tramutarsi in estate si respirava un’aria nuova fra le case e i condomini della piccola città. La luce della sera filtrava allegra fra le case e la brezza tiepida portava suoni di dopocena che si udivano dai vialetti ornati dalle rose ora al massimo del loro splendore. Era sbattere di tovaglie dai terrazzi e la sigla del Tg1, erano voci di bambini che facevano la conta prima di iniziare i primi nascondini di stagione. Era il tempo delle mattine assolate, degli scolari irrequieti e delle maestre stanche, delle corse sfrenate sotto la pergola del giardino delle scuole Gabelli e della foto di fine anno all’ombra del pruno rosso. Il mese delle rose e del rosario terminava sempre così alla metà degli anni ‘80, e fu così pure all’inizio di quell’estate dei miei dieci anni, quando la scuola, per me, terminò a metà mattina di un caldo venerdì. Arrivò un attacco di appendicite a rovinare un po’ l’allegria di quei giorni in cui ormai le vacanze estive erano davvero a un passo. L’ospedale era quello vecchio situato in centro città e ormai in via di dismissione, con il portone di legno marrone e la grande camerata che mi avrebbe ospitato per poco meno di una settimana. Un pomeriggio di attesa sdraiato sul letto con le sponde di ferro beige, poi il giro sulla barella attraversando gli angusti corridoi e infine la grande lampada sopra il tavolo operatorio. Mi risvegliai il mattino successivo circondato dai famigliari e accompagnato dal rumore di auto e autobus che transitavano sul porfido di via Loreto. Furono cinque giorni di tranquillo riposo e di minestrine insipide mentre fuori terminava la scuola e iniziava l’estate. Quel tempo ospedaliero scivolò via velocemente mentre Stephen Roche stava per trionfare al Giro d’Italia; le ore passavano velocemente fra controlli medici sempre più radi e visite di genitori e parenti che mi trattavano come un piccolo eroe che aveva affrontato quell’imprevisto di inizio estate con dignità e coraggio. Al quinto giorno i medici mi lasciarono fare ritorno a casa con qualche blanda raccomandazione riguardante il cibo e fuori dal severo portone di legno trovai l’estate appena nata ad attendermi. Ora il tempo della scuola era terminato e la piccola città aveva già iniziato a svuotarsi. Nei parcheggi condominiali mancava qualche roulotte che aveva preso la strada delle vacanze e in quei lunghi pomeriggi di sole erano pochi i bambini che giocavano nei prati e nei cortili. Qualche giorno ancora di vita cittadina utili a rimettermi in forze, poi l’ultimo atto di coraggio, quello del taglio dei punti che sanciva il termine di quel periodo di convalescenza che, tutto sommato, era stato superato senza grossi disagi. Poi arrivò una limpida mattina in cui mi svegliai a orario di scuola e mezz’ora più tardi ero seduto sul rovente sedile in similpelle nera della 127 color del cielo che stava vivendo la sua ultima estate e che, nonostante la sua veneranda età, ringhiava ancora orgogliosa lungo i rettilinei della Strada Madre. Papà ci scaricò velocemente ai piedi del Pelsa e poi fece rotta verso la Val Fiorentina, io invece mi dedicai subito alla costruzione del muletto della Lego avuto in regalo perché “ere stat valent ‘nte chi dì de l’apendicite”. Solo una piccola cicatrice ricordava quei pochi giorni vissuti fra quelle mura stanche, ora c’era da vivere il presente di una nuova estate da trascorrere nel paese situato all’incrocio delle valli e dei venti.
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