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L’ULTIMO FIENO
AUDIO
La ricordo calda quell’alba di fine giugno di tanti anni fa. Una stinta foschia nell’aria, una nebbia leggera che si alzava dai prati bagnati dall’umidità della notte e dei passi lenti in cucina quando le stelle brillavano ancora in quel cielo d’estate. La sera prima il nonno aveva detto “…doman vade inte a siegà…” e quel suo muovere in casa all’inizio dello sfumare della notte, era la conferma del suo intento di svolgere quel lavoro che l’avrebbe impegnato per una mattina intera. Nel dormiveglia avevo ascoltato il suo caratteristico incedere e poi il socchiudersi leggero della porta d’entrata mentre dalla finestra entrava una flebile luce azzurrognola. Mi ero alzato poco prima del levarsi del sole sopra la cima del Pelsa, e dopo aver fatto colazione mi ero preparato per raggiungere il nonno che stava già falciando da circa un paio d’ore. La nonna aprì il tabià dove mancava la falce dal manico azzurro, prese il rastrello e poi iniziammo la breve camminata che ci avrebbe portati al prato che distava poco più di cinquecento metri da casa. Era un prato situato appena sotto la strada provinciale, in una posizione comoda, un po’ inclinato verso valle ma tutto sommato agevole da lavorare. Niente a che vedere con alcuni prati che avevano falciato in gioventù, situati in zone impervie e lontane da casa. Pochi minuti più tardi vedemmo il nonno impegnato in quella attività che era stata parte integrante della sua vita. Ora il sole era alto sopra la valle e lui falciava con il ritmo regolare proprio di chi quel difficile lavoro ce l’aveva nel sangue. Di tanto in tanto si fermava per asciugarsi la fronte sudata e per ravvivare il filo della falce con la “prieda” e poi riprendeva a lavorare. La lama sfiorava il terreno e l’erba ancora umida si adagiava con grazia a terra; in quelle braccia non c’era più la forza dei tempi di quella giovinezza rovinata dalla guerra, c’era invece l’esperienza che rendeva elegante quel gesto solamente all’apparenza semplice. Scendemmo anche noi nel prato che ormai era quasi interamente falciato e poco dopo la nonna iniziò a rastrellare quell’erba che, baciata dal sole, già iniziava a seccare. Con gesti ampi tirava a sé l’erba formando delle file regolari mentre il nonno terminava lo sfalcio. Il lavoro terminò prima del suonare della campana che annunciava il mezzogiorno, e poco più di un quarto d’ora più tardi quegli attrezzi, che tanto avevano lavorato sui prati, erano nuovamente riposti nel fienile, appesi accanto al portone d’entrata. Ora sarebbe toccato al sole svolgere una parte fondamentale di quel lavoro, e l’avrebbe svolto con vigore, come assicurato dal Colonnello Baroni che la sera precedente aveva previsto cieli tersi, temperature in aumento e assenza di precipitazioni. Il giorno successivo l’erba venne rivoltata e poi, il mattino dopo, entrarono in scena le corde, i grandi lenzuoli muniti di anelli e il carretto celeste. Erano pesanti quei fasci di fieno che furono trasportati fino in strada e per poi essere caricati sul carretto. Pochi minuti più tardi l’ultimo sforzo, ovvero quello di riporre i “fas de fen”all’interno del tabià. Il successivo doppio giro di chiave chiuse la porta del fienile e chiuse pure un’epoca importante; lo seppi tempo dopo che quello sarebbe stato l’ultimo fieno e che la stalla e il “porzil” dall’anno dopo sarebbero rimasti vuoti. Terminò così, in una calda giornata di fine giugno, quella storia di faticoso lavoro che per decenni aveva impegnato i nonni che avevano deciso di riporre per sempre falci e rastrelli. Oggi, a testimoniare quel vivere che non esiste più, sono rimasti gli attrezzi ancora appesi al loro posto e il profumo dell’erba di quel prato che tanti anni fa, donò a quegli uomini stanchi l’ultimo fieno.