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GUERRA TRA LE CIME
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Lassù, dove la Strada 48 delle Dolomiti raggiunge il suo culmine, è presente un museo all’interno del quale si compie un viaggio a ritroso nel tempo. Varcato quell’uscio si indietreggia lungo il secolo scorso, fermandosi alla fine di maggio del 1915, ovvero al tempo in cui le zone di confine delle Dolomiti Bellunesi divennero fronte di guerra. Pochi passi e ci si ritrova immersi in quell’epoca lontana poco più di cento anni, dentro a quei ventinove mesi in cui venne rotto il millenario silenzio di quelle montagne che divennero cimitero per troppi uomini. Una storia di soldati che sfidavano i colpi dei fucili e delle mitragliatrici su quei ghiaioni ricoperti di reticolati, storie di militari provenienti dall’intera penisola, intenti a sorvegliare forcelle e a tentare di conquistare qualche palmo di terreno d’alta quota; una storia di civili in preda alla miseria e di donne che da sole mandavano avanti quel vivere che era già duro in tempo di pace. Il severo bianco e nero delle fotografie riporta paesaggi scabri e strade fangose percorse da camion primordiali e militi a piedi, che raggiungevano il fronte pregando di poterle ripercorrerle a ritroso sulle proprie gambe. Quella di allora era montagna aspra, quasi priva di bosco, sulla quale gli uomini stavano aggrappati alle cenge, appollaiati al gelo di vedetta in anfratti rocciosi simili a nidi d’aquila, e oggi quelle stesse rocce narrano le vicende esaltanti e drammatiche del Maggiore Martini, del Tenente Fusetti, del Generale Cantore e di tanti, troppi uomini rimasti lassù dove le roccia si unisce al cielo. Furono mesi di bombe che illuminavano le notti agordine e poi di macerie di quegli abitati ridotti a un mucchio di pietre fumanti; non ci fu pietà per Arabba, Livinallongo, Larzonei, Ornella e le altre frazioni abbarbicate lungo i versanti che digradano verso il Cordevole. Fra quelle mura è raccolto il vivere di militari intenti a scavare gallerie di mina nelle viscere della montagna, sono conservati gli oggetti personali che tentavano di offrire una quotidianità normale a quelle vite impossibili. Erano baracche d’alta quota sferzate dalla tormenta, all’interno delle quali erano alloggiati giovani baffuti di nemmeno vent’anni, fotografati con la sigaretta in mano per darsi un tono. Li immagini quei giovani dal viso già adulto mentre risalivano il glabro versante ovest del Col di Lana, fieri di compiere il loro dovere e consapevoli di potere rimanere lassù per sempre. Ritrovi le loro sentite parole scritte con calligrafia minuziosa in quei momenti in cui non risuonavano i colpi delle bombarde e dei mortai. E poi li pensi distesi nei precari letti degli ospedali da campo, nei quali i medici operavano con i primordiali e severi strumenti chirurgici oggi conservati in una bacheca che fa tremare l’anima. Uniformi di generali e Alpini, fucili e baionette e rivoltelle, telefoni da campo e bombe a mano che straziavano i corpi e le rocce. E poi lettere e preghiere, scatole di cibo e munizioni lassù, dove alla fine di ottobre del 1917 ritornò il grande silenzio delle montagne dolomitiche. A quel tempo, il fragore della guerra si spostò su altre montagne che vegliano la pianura veneta, ma questa è un’altra storia…
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