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LA CASA DELL’ECO
AUDIO
Ed ora che la prima pioggia d’autunno aveva ripulito l’aria, bagnato la terra a riposo dei campi e scacciato definitivamente l’ultimo rimasuglio d’estate, lassù erano rimasti i silenzi che chiamavano memorie di voci e di prati. Ottobre era calato solennemente sulla valle, ed era entrato nell’anima di quelle poche persone che ancora abitavano in quelle case a mezza costa che guardano il Pelsa. Era un tempo lento e uggioso, umido di pioviggine, quello che stava vivendo in quel tardo pomeriggio di nuvole grigie e foglie color ruggine dei faggi. Scrutava la valle appoggiato alla ringhiera di legno del terrazzo, ricordava i tempi di quando i pali della luce erano di legno e i visi di quelli che c’erano prima, a nemmeno cinquant’anni erano già segnati da rughe profonde come i canaloni della grande montagna. Osservava l’orizzonte sud, quello chiuso dallo Spiz de Medodì la cui cima era già vestita d’inverno, seguiva quel vagare lento di nuvole che muovevano lungo i fianchi delle montagne, e poi guardava il severo scuro verde della Casa dell’Eco, che mai aveva visto aperto. Il pomeriggio ormai stava volgendo verso la sera, e già si scorgeva in lontananza il malinconico brillare della Stella del Pelsa. Nell’aria solamente il canto cupo del Rù da Ghisel e di fronte, a poco più di cento metri, la sagoma austera di quella casa silente. A quei tempi in cui i giochi virtuali non esistevano, anche giocare con l’eco poteva essere un modo per far passare quel tempo lento di montagna. Era un gioco centellinato, erano grida scomposte urlate con voce bambina, erano brevi frasi sconnesse o ritornelli di canzoni vecchie cantate a voce piena. La Casa dell’Eco era capace di ripetere fedelmente tutto ciò, ed era un fenomeno che destava stupore e che non stancava mai. Era un gioco di breve durata, puntualmente interrotto da quel No sta scraià pronunciato con quel tono severo che metteva fine, almeno per un po’, a quel semplice passatempo. Osservando la casa inoltrarsi nel buio ricordò quella fredda sera d’inizio dicembre di qualche anno prima, quando era arrivato al paese appena smesso di nevicare e all’ora di cena era sceso il gelo. Tutto si era presentato come al tempo della sua infanzia, con la strada innevata, i candelotti di ghiaccio che prendevano dai tetti e un mare di stelle sopra il Pelsa. Dopo cena si era messo a spalare e il suono sordo delle badilate di neve gettata lì dove un tempo c’era l’orto, ritornava da lui, riflesso dalla parete nord della Casa dell’Eco. Fermò un attimo il suo lavorare notturno e picchiò un colpo secco di badile sulla neve che iniziava a ghiacciare, e poi urlò un verso sconnesso, uguale a uno di quelli che aveva gridato tanti anni prima; l’eco c’era ancora, proprio uguale ad allora, solamente la voce riflessa era notevolmente cambiata. Guardò la parete della casa oggi illuminata dalla fioca luce arancione di quei lampioni che allora non c’erano, fissò lo scuro verde che possedeva ancora quell’aura di mistero, e poi picchiò un altro colpo. La Casa dell’Eco rispose prontamente, come al tempo in cui i potenti colpi di manarin inferti dal nonno risuonavano nella valle e lui era lì al suo fianco, ad osservare il lavoro e ad ascoltare il riflesso di quel suono che raccontava quel preparare un altro lungo inverno. Cercò nel buio la sagoma dello scuro verde che mai aveva visto aperto, pensò che anche in quella umida sera aveva ritrovato qualcosa che gli apparteneva; anche l’eco, che ancora, dopo tanti anni, gli riportava suoni voci e memorie. Ormai era notte fatta e i contorni delle montagne, del tabià e delle case vicine, erano divenuti profili appena accennati; era tempo di rientrare in casa, a vivere ancora una volta la serenità di una tranquilla sera d’ottobre.
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