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IL FREDDO
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Era ai primi di dicembre che arrivava il freddo vero, quello capace di ghiacciare le strade gli uomini e l’acqua delle fontane. A quel tempo di Natale quasi imminente, il pugno di case aggrappate al pendio che guarda il Pelsa iniziava ad essere illuminato dal sole appena dopo le dieci del mattino. Fino a quell’ora era alba infinita e stanca e luce blu ad illuminare i ripidi canaloni incrostati di ghiaccio della grande montagna. Tutto taceva durante quei lunghi e gelidi primi mattini d’inizio dicembre, la natura, in quella semi oscurità silente, non dava alcun segno di vita. I larici ormai spogli dormivano, i faggi apparivano come scheletri grigi e il respiro degli uomini si trasformava in ghiaccio che ornava i baffi di quegli uomini già in stalla molto prima dell’alba. A quel tempo d’inizio inverno, a causa di quel freddo glaciale che gelava uomini e montagne, ogni banale attività della vita quotidiana diventava sacrificio. Uscire al buio a prendere una cesta di legna, attendere la corriera oppure portare el lat a caselo, in certe mattine erano azioni che necessitavano di un certo coraggio per essere compiute. Aldilà dei vetri, il cielo del primo mattino che dal nero sfumava verso il blu scuro, faceva presagire la presenza del grande gelo. Era un freddo affilato come le lame di quelle falci che ai primi di luglio rasavano i prati, era un freddo tagliente, capace di ghiacciare le dita fino a farle dolere. Erano nuvole ad ogni respiro e tagliole sulle mani, neve dura come il marmo e ghiaccioli puntuti che pendevano dagli sporti dei tetti. Era l’inizio dell’inverno che si mostrava in modo deciso agli abitanti della montagna, e questo tempo di gelo sarebbe durato almeno fino alla fine di gennaio, fino al tempo dei giorni della merla quando l’inverno ormai adulto avrebbe scatenato tutta la sua forza. In certe notti di stelle e silenzi, quando il termometro avrebbe indicato un sottozero a due cifre, il grande freddo si sarebbe prepotentemente infilato nei pertugi presenti in quei vecchi serramenti. Avrebbe poi raggiunto le camere da letto in cui dormivano quelle genti che ogni anno, dalla fine di novembre fino a marzo inoltrato, combattevano una vera battaglia contro il Generale Inverno. Di notte, in quelle case a mezza costa c’era atmosfera di fuoco morente. Le pietre del fornel e i cerchi di ghisa della cucina economica si intiepidivano sempre più mentre gli uomini vivevano il sonno di quelle lunghe notti della stagione dei silenzi. In quelle ore che sembravano eterne il freddo si faceva cosa viva in quelle stanze dalle finestre piccole e dai soffitti bassi. Era capace di pungere quei visi che arditamente tentavano di uscire da sotto i pesanti piumoni, era capace di arabescare i vetri all’interno; all’accendersi del giorno, perfetti decori bianchi avrebbero impreziosito quelle lastre sottili aldilà delle quali si stava per presentare un’altra giornata di camini fumanti. Solamente in alcuni giorni il gelo allentava la sua ferrea presa. Era al tempo delle nuvole che avvolgevano le montagne, che cancellavano l’orizzonte e che calavano sui paesi. Atmosfera umida, neve che scendeva dapprima leggera e poi sempre più fitta, neve che andava a coprire i tetti e i campi a riposo e a rallentare il vivere di quelle genti che stavano vivendo un altro freddo ed infinito inverno di montagna.
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