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VACANZE DI NATALE
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Quello di Natale era stato un giorno stanco, vissuto in una Belluno grigia di nuvole e bianca di neve. L’alzarsi dal letto più tardi del solito e il malinconico spegnersi di quell’atmosfera intima e bella del cenone della Vigilia. Le carte accartocciate dei regali, i piatti i bicchieri e le posate del servizio buono ancora sul tavolo grande del soggiorno. Metà pandoro nel suo sacchetto e una bottiglia di spumante vuota, e nel frigorifero il vassoio di acciaio contenente una grossa fetta di tiramisù. Visi assonnati e la televisione che trasmetteva film di Natale, il nuovo Lego da montare e poi un pranzo leggero, quasi una replica in miniatura della grande cena della sera precedente. Nel primo pomeriggio un giro nei dintorni di casa, a giocare su quella neve stanca di città e poi, all’imbrunire, il rientro e i veloci preparativi per la partenza del giorno successivo, destinazione San Tomaso. La Ritmo saliva veloce lungo la Statale Agordina deserta, inoltrandosi lungo la valle già oscurata delle prime ombre pomeridiane. Montagne severe cariche di neve, cielo grigio, asfalto umido coperto di ghiaino e l’inverno che si faceva dopo ogni curva, sempre più inverno. Papà diceva che superata la stretta di Mezcanal avremmo trovato più neve e così fu. A Cencenighe, le nuvole stazionavano a mezza costa chiudendo l’orizzonte nord e la neve sembrava premere forte sui tetti ormai colmi. Poco dopo le tre, ai piedi del Pelsa era già tempo di fari accesi e fumo dai camini che andava a perdersi in quel cielo grigio che chiamava inverno. La Provinciale di San Tomaso era innevata e resa stretta dalla neve ammucchiata ai lati che si alzava fino a coprire quasi per intero i pali di legno rossi e blu. Colzaresè ci accolse con il lieve mormorare di quell’acqua di fontana capace di scavare un buco nella neve che aveva coperto per intero le vasche di cemento. Scendemmo con qualche difficoltà la scalinata ghiacciata e poi aprimmo la porta d’entrata senza bussare. In corridoio era dicembre, appena varcata la soglia della porta della cucina trovammo luglio. Un caldo pesante ci fece togliere immediatamente le giacche a vento, e poi furono saluti in dialetto e un bicchiere di bianco per papà. Al termine del veloce tramonto, da dietro i vetri della finestra della stua vidi scemare la luce dei fari della Ritmo che scendeva con prudenza lungo la Provinciale. Ora ero lì di fronte al Pelsa, a vivere per alcuni giorni la profonda quiete dell’inverno in compagnia dei nonni. Avrei giocato a lungo nella tanta neve che di giorno si sarebbe ammorbidita leggermente, avrei osservato l’andare delle nuvole e ravvivato il fuoco nella cucina economica. Poi, a notte fatta, non avrei dormito nella stanza dai muri rosa, avrei riposato sul divano della stua, di fronte al fornel, sotto ad una coperta e ad un pesante piumone. Le conoscevo quelle notti di neve e stelle, mi piaceva quella luce tenue di Luna che entrava discretamente dalle due finestre. Ci sarebbe stato il muovere lento del grande abete e lo sfumare del caldo del fornel, e poi scricchiolare di travi e, ad un certo punto della notte, i passi del nonno che iniziava la sua giornata molto prima dell’alba. Un vivere così, in compagnia dei nonni e della neve, per una settimana o poco più, fino a quel tempo dell’Epifania che tutte le feste porta via.
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