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NOTTE D’INVERNO
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Mi sono svegliato nel cuore di una notte di un inverno senza neve. C’era uno spicchio di Luna crescente a fare compagnia alle stelle, e poi un gran silenzio di fine gennaio. Mi sono alzato, ho indossato abiti pesanti e sono uscito a vivere quegli attimi di notte fonda. Un freddo d’altri tempi ha sferzato il mio viso appena varcato l’uscio. Era un gelo che ridestava sensi e memorie, che raccontava di un tempo in cui, a quell’ora di buio profondo, fra queste case a mezza costa che guardano il Pelsa, c’era già vita. A settentrione le luci di Alleghe e il lungo profilo del Fertazza a chiudere la valle, a sud le Pale di San Lucano con i versanti nord che narravano il lungo inverno di lassù. E poi la sagoma scura del tabià e delle case vicine e la malinconica luce arancione dei lampioni che illuminavano la provinciale deserta. Sono salito in strada e mi sono fermato ad osservare le case. Nessun chiarore ad illuminare le finestre. In alcune di queste abitazioni qualcuno stava dormendo, altre, invece, erano abitate dal silenzio dell’assenza. Osservavo e ricordavo, e li avevo davanti agli occhi quei visi anziani di un tempo, rammentavo le loro voci e lo stanco modo di camminare di ognuno. Una grande stella brillava sopra Col Mandro e non c’era un filo di vento. Tutto era immobile in quell’ora in cui, tanti anni, prima, iniziava il vivere quotidiano di quella gente che parlava poco e andava a letto presto. A quel tempo, quasi tutte le finestre delle cucine erano illuminate. Fioche lampadine rendevano vive quelle case semplici nelle quali gli uomini iniziavano i preparativi per la mungitura della vacca. Affrontavano il gelo potente di quegli inverni con un secchio di ferro in una mano e una pila oppure un feral nell’altra. Una trentina di metri e poi il tepore della stalla, il suono soffuso prodotto da quel latte schiumoso e tiepido che lentamente riempiva il secchio. Poi il frusciare del fieno nella carpia ed il ritorno a casa dove avrebbero acceso il fuoco e mangiato qualcosa per colazione. Osservavo i tabià e le stalle e ricordavo quel muovere notturno che per me era quasi misterioso. Rammentavo quel movimento a notte ancora fonda e quello scricchiolare dei pavimenti sotto i passi lenti dei vecchi. Ricordavo che, per quanto certi miei risvegli fossero stati a volte precoci, quel primo compito di giornata era già stato compiuto da tempo; al mio arrivo in cucina il fuoco ardeva già allegro e la scodella di latte fresco mi attendeva sul tavolo mentre fuori il nuovo giorno era nato da poco. Immerso in quella quiete d’inverno ricordavo visi voci e andature stanche, poi, a distogliermi da quei pensieri, fu una femmina di cervo salita agilmente dalla scarpata sottostante e accompagnata dal piccolo dell’anno. Percorsero qualche metro lungo la provinciale deserta e mi passarono accanto guardandomi con curiosità e forse stupore. Abbiamo incrociato per un attimo i nostri sguardi e poi hanno continuato in tranquillità il loro vagare notturno fra le case. Ora il freddo iniziava a farsi sentire e il cielo mostrava il primo timido chiarore che annunciava un lungo e lento nascere di una domenica d’inverno. Era tempo di rientrare in casa e ritornare per un po’ sotto le coperte mentre le anime di quegli uomini di un tempo si preparavano per portare el lat a caselo mentre fuori albeggiava.
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