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FINE DI UN’EPOCA
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Ora che la grande Levina della Fava era scesa con il suo boato che aveva scosso la valle e decretato l’inizio della vera primavera, in quello spicchio di mondo, tagliato in due dalla strada provinciale e illuminato dalla fioca luce di una lampadina, non era rimasto più nessuno. Se n’erano andati tutti in breve tempo, le ultime tre donne nei giorni del fiorire dei ciliegi. Questa volta, però, non avevano lasciato il paese per recarsi in Svizzera oppure in Francia o in Belgio a lavorare. E neppure par dì a servì a Milan in qualche casa di benestanti o a Cortina a fare la stagione. Stavolta erano partiti per raggiungere il luogo dell’eterno riposo, erano andati ad abitare per sempre a poco più di un chilometro da casa, nel camposanto che guarda il Civetta. Si erano ritrovati lì, ancora una volta vicini, qualcuno sottoterra e altri nelle colombaie. Avevano vissuto una vita faticosa, si erano visti ogni giorno quando si trovavano al paese, e poi qualche volta avevano anche litigato e si erano aiutati quando c’era stato bisogno. Avanti così, fino al tempo dei settanta e pochi anni, quando si erano visti vecchi e stanchi, colmi di acciacchi e ricordi. Ora avrebbero riposato per sempre vicini, e quelle lettere in bronzo, che formavano i loro nomi e le date di nascita e morte, raccontavano pure la fine di un’epoca. Loro erano saliti in cielo e ora la montagna era rimasta sola. Non c’erano più quelle donne e quegli uomini che per decenni l’avevano accudita e curata al prezzo di fatiche immani. Non si sarebbero più viste quelle schiene curve che lavoravano sui campi e sui prati in pendenza, non si sarebbe più sentito il sibilo delle falci e il battere ritmato della zappa al tempo della raccolta delle patate. Lo sfumare di quel vivere ormai antico era iniziato qualche anno prima, al tempo dei capelli sempre più bianchi e delle gambe sempre più affaticate. Si leggeva la resa dentro a quelle frasi pronunciate mentre parlavano al bar davanti ad un bicchiere di rosso oppure mentre curavano l’orto. Sto an che vien ceneto encora la vacia? No no, basta, masa laoro. Son strak e no son pi de voia, cene domai trei pite. Sapevano che si stava chiudendo per sempre un’epoca, e sapevano che quasi certamente nessuno avrebbe raccolto la loro eredità. I figli e i nipoti erano quasi tutti lontani da quella frazione aggrappata al pendio che scende ripido verso il Cordevole. Qualcuno di loro viveva altre vite a qualche chilometro di distanza nei pressi della grande fabbrica, altri erano scesi in città e qualcuno era fuori regione oppure aldilà dell’oceano. Lassù erano rimasti quasi solamente i vecchi a vivere i lunghi inverni e le ventose primavere di montagna. Era arrivato inesorabilmente il tempo della vecchiaia che rendeva le stalle sempre più vuote, dei campi meno estesi e dei prati sempre più incolti. Le forze rimaste erano utilizzate per fare la legna necessaria a superare l’inverno, ed anche questo lavoro diveniva ogni anno sempre più pesante. Poi qualcuno era volato in cielo e altri erano andati a terminare i propri giorni in qualche ricovero lontano dal paese. Erano rimaste poche vedove stanche e da quell’inizio di primavera nemmeno più loro. Al tempo dello sfiorire dei primi fiori che ornavano le nuove lapidi, la montagna mostrava già i segni della loro assenza. L’erba era già cresciuta negli orti ora incolti e all’alba gli scuri non si aprivano più. Era rimasto solamente un silenzio carico di ricordi, scandito dai rintocchi della campana che suonava per meno di ottocento anime che al mattino vedevano sorgere il sole sopra il Pelsa.
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