RICORDI D’AUTUNNO
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Le foglie dei tigli di via Feltre, ingiallite dall’autunno, volteggiavano lente nell’aria prima di posarsi sul marciapiede. Le trovavo così al mattino mentre prendevo la strada per andare a scuola. Distese sull’asfalto ancora umido della rugiada della notte. Ed il giorno stentava ad arrivare, con il sole ancora nascosto dietro le montagne dell’Alpago ed i lampioni che illuminavano quegli ultimi scampoli di oscurità. Autobus gialli, carichi di persone assonnate, viaggiavano pigri verso la stazione infilandosi nella leggera foschia dell’alba. Ed io camminavo spedito per la via, con quelle foglie gialle che si attaccavano tenaci agli stivali di gomma blu. Il fresco di quei mattini di metà ottobre trapassava la dolcevita e ad ogni passo ridestava i sensi ancora intorpiditi dal sonno. Il grande ippocastano mi salutava con un solenne buongiorno. Mi fermavo sempre a raccogliere i ricci e qualche “castagna mata”. Sembrava impossibile non poter mangiare quelle castagne così belle e lucide. Pochi passi dopo la luce del lavasecco illuminava il marciapiede. L’odore di ammoniaca si spandeva nell’aria e rallentavo il passo per sbirciare attraverso le vetrine leggermente annebbiate dal vapore dei ferri da stiro. E c’erano sempre quelle due figure chine sull’asse col ferro in mano, circondate da decine di cappotti e vestiti appesi avvolti nel cellophane. Dopo nemmeno cento metri Belluno diventava di colpo città. C’era Piazzale Marconi. Un nome importante. Marconi, mi dicevano, si chiamava Guglielmo ed aveva inventato la radio. La maestra ci spiegava che Belluno era una piccola città. Anche il quaderno fucsia delle Regioni d’Italia ci teneva a ribadire questo concetto. “Belluno, 383 m. s.l.m. Ridente cittadina ai piedi delle Dolomiti.” Fine. Poche righe per raccontare una piccola città. Ma a me Belluno non sembrava poi tanto piccola. In Piazzale Marconi c’erano il distributore di benzina, il passaggio pedonale e lo spartitraffico illuminato come quelli che si vedevano alla televisione quando mostravano Milano. C’era il traffico e pure un bar. Attraversavo la strada e, dopo circa trecento metri, arrivavo in Piazzale Cesare Battisti. Che chissà chi era. Sicuramente un’altro uomo importante per avere il suo nome riportato sulla tabella dell’isola pedonale. L’incrocio con il semaforo era l’ultimo ostacolo prima di arrivare alle scuole Gabelli. Dall’altra parte della strada c’era la Vigilessa. Austera nella sua divisa nera. Con la cravatta ed il cappello bianco alto mezzo metro. E la gonna al ginocchio. Era lei la padrona assoluta dell’incrocio. Col fischietto in bocca ed il filo-comando in mano. Severa ed inflessibile con pedoni ed automobilisti. E tutto filava liscio che nemmeno nella perfetta Svizzera. Davanti al grande cancello della scuola mi aspettava il mio amico che si chiamava come me. Paolo. Che allora i nomi erano semplici, Paolo… Giorgio… Alessandro…E dalla cartella usciva una pallina da tennis mezza consumata. Giacche per terra a fare da pali e via ad iniziare una divertente partita di calcio su uno dei vialetti della “Scuola Elementare più bella d’Italia”. Io tifavo Milan, Paolo per il Napoli di Maradona. Ed erano sfide all’ultimo sangue fra i due piccoli emuli del “Pibe de oro” e Franco Baresi. Sfide che terminavano al suono della prima campana e che sarebbero ricominciate il mattino dopo. Pioggia permettendo. Poi tutti in classe. E, fra un dettato ed un esercizio di aritmetica, lo sguardo si perdeva oltre i grandi vetri a cercare gli alberi del giardino. I verdi cedri del Libano, i meli ed il pruno rosso. E tutte le altre piante colorate d’autunno. E mentre la maestra spiegava ammiravo quel piccolo bosco cittadino. Sognando i larici i faggi e gli abeti agordini che avrei rivisto il sabato pomeriggio a Cencenighe. Perchè, allora come adesso, una gran parte del cuore dimorava lassù. Fra i boschi e le rocce delle Magiche Dolomiti!!!