“EL bòsk dal forn 31 ottobre 2018”
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Il “bòsk dal forn” è una delle bellezze di Cencenighe. Un bosco perfetto, formato praticamente in egual misura da abeti larici e faggi. Dal paese sale lungo i costoni della “Banda de qua”, fra le frazioni di Martin e Cavarzan. D’estate è colorato di un verde gentile e non troppo appariscente. Ma è dalla fine di settembre che inizia a trasformarsi, mutando il verde in tinte autunnali ogni giorno più sgargianti. Nelle giornate terse di ottobre assume colori netti e marcati. L’oro dei larici, il rosso vivo dei faggi. Il verde degli abeti. Tinte che sfidano l’azzurro del cielo in una gara a chi sa stupire di più. E non è raro nei giorni d’inizio novembre vedere auto ferme in piazza ed obbiettivi puntati verso il bosco. Quando penso all’autunno, la prima immagine che mi viene in mente è quella del “Bòsk dal forn” nel massimo splendore. E quella sera del 31 ottobre 2018, nei miei tanti pensieri, un posto ce l’aveva anche lui. Mille cose avevo in testa mentre i fari della Panda illuminavano i contorni del disastro salendo da Belluno lungo la 203 Agordina. Le parole di Mirko Mezzacasa ascoltate alla radio appena un’ora prima; “la Valle di San Lucano non esiste più…” Erano le prime ed uniche notizie arrivate dall’agordino fino a quel momento. Mentre guidavo stavo guardando un film in prima visione. Chi era di fianco a me, invece, stava guardando un film già visto. Lungo i rettilinei di Candaten il baccano della Pandina copriva a stento il rombo del Cordevole ancora ingrossato. Aspettavo un cenno, una frase di papà. Mi affidavo all’esperienza di chi un’alluvione l’aveva già vissuta in pieno. Attendevo la frase “…ben dai, nianca mal…”. Che avrebbe stemperato un po’ quell’atmosfera di tensione. Ed invece vedevo occhi che scrutavano a bordo strada fin dove i fari riuscivano ad illuminare quel buio assoluto. Ascoltavo qualche imprecazione a bassa voce. Segno che la faccenda era seria. In cuor mio mi auguravo che le persone fossero incolumi e che avessero ancora un tetto sopra la testa. E pensai pure a quello splendido bosco. “Quel” vento aveva battuto pure a Belluno provocando parecchi danni. Chissà cosa poteva essere accaduto lassù. Non lo sapevamo ancora. Entrammo nel ventre del monte Celo in un mare d’acqua ed in una oscurita che faceva impressione. Superammo Agordo e Taibon ancora al buio. A Listolade ci sorprese qualche luce. Arrivati al Ghirlo, il lampeggiante giallo di una betoniera squarciava il buio mentre uomini sfiniti scaricavano calcestruzzo nella voragine creata dall’impeto del Cordevole. Ci deviarono per la strada di Camp. “Come che l’altra ota” disse la voce seduta di fianco. Arrivati al ponte di Campo il cuore si alleggerì un po’. Il paese era salvo, e non era assolutamente scontato. Ma “quel “vento cosa poteva aver fatto ai boschi intorno al paese? Poteva averli feriti gravemente? Oppure addirittura rasi al suolo come purtroppo è accaduto in altri luoghi? Mentre percorrevo il ponte guardavo la costa che sale verso Martin. Era difficile vedere qualcosa in quella triste oscurità. Ma volevo capire se il bosco c’era ancora. Poco prima del Nof Filò rallentai e guardai a sinistra. Gli occhi ormai abituati a quel buio surreale videro le sagome scure degli alberi ancora in piedi. Ora ne avevo la conferma: nonostante il disastro il “mio” autunno l’avrei rivisto ancora. Ed era una già una consolazione