STORIE DI VITA ANNI ’80
LA VISITA AL’ OSPEDAL DE AGORT
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Le potevi scorgere immobili accanto al palo della fermata della corriera quelle sagome scure semi-assiderate. Stoiche nel sacrificio che si andava compiendo mentre la notte lentamente lasciava la vallata. La timida penombra di quell’alba d’inverno rivelava fiati e capelli che andavano congelando. Bruciavano le falangi arrossate dal gelo e si irrigidivano i paltò scuri che tentavano invano di proteggere quei poveri corpi straziati da un freddo che tagliava la pelle e pizzicava i polmoni. E rischiarava il cielo e fumavano i camini mentre il sole era ancora un miraggio nascosto dietro la Grande Montagna carica di silenzi e di neve. Poi, nel turbinare del “gonf”, ecco i fiochi fari della corriera che rischiaravano la strada. Una lenta frenata, la porta che si apre e due scalini da salire. Lo sguardo assonnato dell’autista e poi il sedersi in silenzio sul sedile in simil-pelle viola. Il ripartire lento della corriera, gli scossoni passando sulle “rodere” ghiacciate. La notte che andava sfumando lasciando spazio ad un nuovo e freddo giorno. Ed ancora ghiaccio e neve. E pensieri. Poco più di quarto d’ora di viaggio e la corriera celeste giungeva al capolinea. Agordo era ancora immersa nella penombra del mattino mentre le due figure attraversavano l’incrocio della Comunità Montana. Poi era un camminare svelto lungo la salita che conduceva all’Ospedale Civile. La nonna vestita con il soprabito nero odorante di nafltalina e borsetta, anch’essa nera, sottobraccio. Il nipote agghindato da quasi festa, con una “sportola” per mano. La soglia del nosocomio di vallata era varcata nel momento solenne in cui il sole illuminava la cima dell’Agner. Visi seri e contriti salivano le scale tentando di sfuggire gli sguardi inquisitori di medici infermieri suore e barrellieri. Era un tin-tin sospetto, proveniente da una delle “sportole” che teneva in mano l’angelico nipote, a destare l’attenzione del personale ospedaliero. E così il mite ragazzino, vestito con maglione marrone, dolcevita rossa e pantaloni di velluto a coste, doveva ricorrere a tutta la sua presunta innocenza di bimbo per sfuggire al controllo della Superiora. La cigolante porta di alluminio del reparto si apriva con tre quarti d’ora di anticipo sull’orario di visita, la caposala sbuffava guardando il soffitto e nonna e nipote proseguivano con finto sguardo triste fino alla stanza del congiunto. Erano ricoveri di poco conto: una bronchite, un piccolo intervento chirurgico, quasi sempre ” ‘n giro de esami”. Spesso, l’anziano ricoverato veniva svegliato di soprassalto con uno scossone e poi iniziava un dialogo con un parlare sottovoce che l’avrebbero sentito fino in Piazza Libertà. “…t’hai portà el pigiama net, leva su che te cambie…”. Così, di malavoglia, il congiunto si alzava, e mentre si cambiava, doveva subire l’interrogatorio incalzante della consorte. “…’tali fat le lastre…talo dit che el dotor…tali fat le ponture?…”. Poi l’attenzione si spostava brevemente verso il nipote e la “sportola” che, compostanente, teneva ancora in mano. Con grande delicatezza, per evitare un altro tin-tin che avrebbe fatto inevitabilmente intervenire una solerte infermiera, veniva estratta la bottiglia di bianco che immediatamente finiva nascosta nel borsone dei vestiti. In quel preciso istante terminava il compito del ragazzino, che da lì in avanti sarebbe stato solamente muto spettatore per un’altra mezz’oretta abbondante. Nel frattempo altri parenti entravano nella stanza per far visita e portare conforto agli altri degenti. Ed era confusione di parlare sottovoce, di “…papà fate la barba par piazer…” Così in tutte le stanze era un ronzare di rasoi elettrici con le lame incandescenti che tagliavano barbe di tre giorni. Mentre le altre mogli interrogavano i mariti, serissime figlie si spostavano ai piedi del letto e, con fasulla competenza, prendevano in mano la cartella clinica. Leggevano e scuotevano il capo dicendo sottovoce, stavolta a basso volume “…ma papà…vardà la presion qua…bisogna descore col dotor…”. Poi l’estenuante interrogatorio andava sfumando ed era il momento di prepararsi a lasciare il congiunto al suo destino “…prima che pase la visita…”. Così, fra un “…me racomande…” ed un “…se vedon i prosimi dì…”, degente nonna e nipote si incamminavano lungo il corridoio del reparto, accompagnati dallo sferragliare dei carrelli delle medicine e dall’inconfondibile odore di Alfa e Nazionali senza filtro fumate più o meno di nascosto.
Poi, poco prima che la porta di alluminio si riaprisse, l’attenzione ritornava brevemente sul nipote che, fino a quel momento, era rimasto in perfetto silenzio. “…fa ‘l bravo ‘co ta nona, e pasa ‘ncora a me catà…”. Ora Agordo risplendeva al sole del mattino, con la neve che abbagliava gli occhi di nonna e nipote che nel frattempo riprendevano la via che portava in stazione. La corriera 154 azzurrina era già in moto, Mario consegnava i biglietti, premeva il tasto di chiusura delle porte e partiva in direzione di Taibon. “…nona, cande elo che tornon a catà ‘l nono?…” “…no tornon pì in Agort, drio doman el ven a cèsa…”.