VENTO DI MARZO
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Mentre la campana batteva due rintocchi ho aperto il cigolante cancello di ferro. Sono sceso lungo la scalinata e ho girato a destra trovando subito i visi dei nonni. Un saluto ed un mettere in ordine i fiori smossi dal vento di marzo. Anche allora era di marzo, esattamente trent’anni fa, quando la nonna scese questi stessi scalini dentro una bara di legno chiaro che scelsi io. C’era vento anche quel pomeriggio, ma non c’era il sereno. Il cielo era cosparso di nuvole inquiete che correvano sopra il Pelsa. Poi ho girato l’angolo: tombe silenti emergevano dalla neve ancora tenace. Quasi un ritrovare l’inverno in quel campo di marmi e silenzi. Spirava forte il vento fra le lapidi di quelle persone nate vissute e poi morte di fronte alla Grande Montagna. La nord del Civetta si alza maestosa e severa aldilà della Val Cordevole, a vegliare questo piccolo cimitero abbarbicato sul ripido prato che scende verso la Val dela Ger. Visi, occhi, nomi incisi sul marmo oppure composti da lettere di ottone. Donne e uomini, con le loro storie, con un vissuto che il vento di quasi primavera sembra voler raccontare. Persone che ora sono racconti e volti immortalati in fotografie ovali poste sulle lapidi appese ai muri. I loro resti, ormai, “i e stai tirai su tanti ani fa”. Sono rimaste quelle foto antiche, quei baffi improbabili e quelle frasi auliche che si intravedono appena sul marmo consumato dal tempo. Immagini in bianco e nero di gente vecchia a cinquant’anni. Espressioni severe di donne “…col fazolet negher su la testa…” Uomini impettiti ed eleganti nel loro unico “…vestì de la festa…”. Alcuni, forse, nemmeno possedevano “…el vestì bon, chel par i funerai…” Ed allora abili fotografi d’epoca si ingegnavano a disegnare quegli abiti eleganti. Vestiti e sfondi finti, un tavolino di legno per darsi un tono nella foto che qualcuno avrebbe guardato e forse pianto. Poi, sotto le antiche
lapidi appese ai muri di pietra, le piccole fotografie, quelle che straziano anima e cuore. “… Mamma e Papà ti piangono…”. A volte sono soltanto nomi incisi tanti anni fa, spesso sono foto “de fantolin” vissuti il tempo di un soffio di vento. Immagini che fanno male, che fanno uscire un “…no le giust…” pronunciato sottovoce. Perché nei cimiteri si parla sempre sottovoce. Poi, nell’angolo del camposanto, quella frase antica, carica di dignitoso dolore “…la famiglia dolente pose…”. Ed erano gli anni ’10 del secolo scorso. Frusciare dei mazzi di fiori posti sulle colombaie, scricchiolare della neve ancora ghiacciata. Poi il rintocco della campana che batte la mezza. Il cigolante cancello che si richiude dietro le spalle.Il ritornare nel mondo dei vivi dopo aver letto ancora una volta quelle parole severe “Anch’io ero come sei tu. E tu verrai come sono io”. Camminando verso la macchina rammento le frasi rassegnate che udivo da quelle persone che ormai sono ricordi”…polver se era e polver se tornarà…”. Quando ritornerò non ci sarà più la neve ed i larici avranno colorato i costoni del Pelsa di un verde nuovo. Ma ci saranno ancora quei visi e quegli occhi vegliati dalla Grande Montagna.