LA BRENTA DE PRADEMEZ
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Canta una musica soffusa l’antica fontana di Pradimezzo di Cencenighe Agordino. Una melodia che oggi un pò si perde nel brusio d’auto che proviene dalla sottostante Strada Regionale. È di notte, quando i rumori scompaiono, che la sua voce d’acqua ritorna ad essere protagonista come lo era nel lontano 1885. Chissà com’era il silenzio in quei tempi lontani: lo immagino simile ad un tacere profondo rotto soltanto dal vociare dei bambini e dai colpi delle mazze che battevano sui cunei di ferro che aprivano i tronchi di larice. E poi dallo scalpiccio degli zoccoli delle vacche e dal risuonare dei secchi di rame che giungevano vuoti alla “brenta” di pietra. Ogni frazione aveva la sua fontana, ma forse quella di “Prademez, ” per i bisogni del momento, era divenuta obsoleta. Oppure, più semplicemente, gli abitanti del borgo ne desideravano una più bella, magari più grande e funzionale.
Carlo e Gabriele avevano circa trent’anni quando, nel lontano 1885, misero a disposizione la loro esperienza di “tajapiere”. Erano abili scalpellini, con braccia forti e anime di artisti. Li immagino in una limpida mattina d’autunno mentre salgono chiacchierando lungo la mulattiera del “Bosc dal Forn”. Crepitare di foglie di faggio sotto gli scarponi e la camminata veloce e sicura di chi aveva trascorso la vita su quei ripidi pendii. Malos, Cioit e poi l’approdo nella foresta dei Mesaroz. Dove avrebbero scelto il masso più adatto di pregiata pietra. Erano dotati di pochi mezzi ma possedevano grande ingegno ed esperienza. “Leverin, ponte e mazot, ‘na stroza da sas” e tanta abilità acquisita lavorando in valle e pure all’estero. Mi piace immaginarli mentre lavorano insieme chiamando il colpo “par tramudà el blok”. Poi, sistemato opportunamente il masso, iniziare il difficile lavoro “de ponta e mazot” per squadrare l’esterno della fontana e svuotarne l’interno. Un susseguirsi di colpi rapidi e sapienti, un picchiettare metallico che rompeva il silenzio del bosco. Un lavorare che era musica d’artista che modellava la pietra. Sudore, schegge di Dolomia e giallo dei larici. L’attendere l’arrivo della neve per provvedere al trasporto fino a Pradimezzo. La parte più complicata di tutta l’impresa. Un metro cubo di pietra pesa ventiquattro quintali ma dalla loro avevano “el mestier”. Come due novelli egizi, servendosi di tronchi di legno e della “stroza”, scesero dai Mesaroz fino a Veronetta sfruttando la neve e la gravità guidando con sapienza il discendere della fontana lungo la ripida mulattiera. Poi il tragitto un pò più comodo “fin fora su la Roa”, dove la pendenza della salita che conduce a Pradimezzo avrebbe messo ancora a dura prova i due amici. Mi piace immaginare che in tanti siano corsi in aiuto dei due abili scalpellini. Tutti a spingere la nuova “brenta” fino alle case “de Prademez”. Poi le ultime rifiniture e la collocazione sul bordo di quella che oggi è strada asfaltata. Ancora un lavorare de “ponta e mazot” per incidere le loro iniziali ed una data particolare: 14 marzo 1885. È probabile che non sia semplice coincidenza la scelta di quel preciso giorno: il 14 marzo è la giornata in cui il sole, per la prima volta dopo i lunghi mesi invernali, illumina la frazione anche nel pomeriggio. Da quel dì in poi l’inverno diventa un pò più gentile, con la neve che inizia a mollare tramutandosi in acqua che disseta i campi ed i prati dove crescono preziosi alberi da frutto. Mi piace immaginare la soddisfazione di Carlo e Gabriele e la semplice festa degli abitanti di Pradimezzo al cospetto della nuova fontana. E chissà da allora quante bestie si sono abbeverate alla “brenta”. E quante le borracce riempite dagli escursionisti in partenza per il bivacco Bedin. Oggi la fontana, come allora, regala la sua sommessa musica d’acqua e le iniziali scolpite nella pietra tramandano la memoria di quelle vite operose vissute di fronte al Pelsa.