QUASI PRIMAVERA
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Era un tempo bislacco quello d’inizio primavera. Un tempo di neve invecchiata aggrappata alle cime, lavorata da gelo e disgelo, rassegnata eppure ancor tenace. A mezza costa, invece, quel tempo era incertezza. Nuvole umide, pesanti, correvano lambendo i boschi spogli, sfiorando i larici e i faggi ancora assopiti nel sonno di quella che, di notte, era ancora stagione di freddo e silenzi. Era un tempo scandito dal battere della “ronconela”. Tre o quattro “legne de pez tirade fora dala pila”. Colpi decisi, sicuri, inferti da “man usade a laorà”. Il chinarsi lento per raccogliere le “skinele” cadute ai lati del “zok”. Uno sguardo alle nuvole che veleggiavano sopra Ghisel. Grigie e silenziose risalivano leggere lungo i versanti del Pelsa, velando e svelando l’alta e severa parete che si innalzava potente fino a ritrovare l’inverno. Poi l’incastellare le “skinele” nella “cosina”, l’accendere la mezza pagina arrotolata dell’Amico del Popolo. La lieve e semplice soddisfazione provata ascoltando il fuoco che ardeva con sempre più vigore. Il chiudere “el registro” e l’aprire “el bank da le legne. Era il tempo della pioggia sottile, delle donne e degli uomini che uscivano dalle “stue” per scrutare quel cielo indeciso, ascoltando il frusciare delle fronde degli abeti mossi dal vento che scendeva dalla Val Cordevole. Uomini e prati che lentamente parevano rinascere a nuova vita. Ma era una vita diversa, con i prati che iniziavano a tramutarsi in bosco, non più falciati da quegli uomini sempre più stanchi. Anche loro parevano sciogliersi come l’ultima neve accarezzata dal tiepido sole del mezzogiorno. Taceva le stalla, sarebbe rimasto vuoto il tabià. “El porzil”, invece, si sarebbe trasformato in “legnera”. Rimanevano i campi, concimati dall’ultima “grasa”. Le patate e i “fasoi” da raccogliere a settembre. Le “trei pite ‘nte seraglio”. La “part de le legne”. Nasceva una nuova primavera e moriva gran parte di quel mondo antico, fatto di gesti tramandati e sempre uguali. Un fare carico di sapienza andava estinguendosi forse per sempre. Le “faoz”, i “restiei” e i “darlin” sarebbero rimasti i muti testimoni di quel mondo che ogni giorno andava sempre più scomparendo. Un camminare lento sotto al “palanzin”, approfittando della pausa fra uno scroscio e l’altro di pioggia “par ligà su quatro fasin”. Un lavorare tranquillo, ascoltando il gocciolare dell’acqua e respirando quell’aria umida di una primavera ancora effimera. Era un tempo fermo, indifferente, necessario. Un tempo di “levine” in bilico sopra i canaloni del Pelsa. Un tempo accettato da uomini che vivevano ancora una volta l’incertezza di quei giorni di fine marzo. Poi erano lunghe sere di poche parole e saggio tacere. E notti di profondo sonno nella perfetta quiete della stanza dai muri rosa.
QUASI PRIMAVERA
Nuvole inquiete attraversano cieli indecisi. Alberi frementi di nuova vita.
Grondaie gocciolanti.
Neve sfinita.
Vogliosa di scomparire in prati ancora dormienti.
Caldo e freddo, sole e vento.
Fredde acque di torrente inscurite dal primo disgelo.
Muri intiepiditi da un sole che ogni giorno acquista una nuova e vitale forza.
Quasi primavera.